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Duemila scritture ultime

Duemila scritture ultimeStele Giustiniani, con rilievo funebre di una fanciulla, forse da Paro, 460-450 a.C. ca, Berlino, Staatliche Museen

Cultura classica Nel 1955 l’epigrafista tedesco Werner Peek pubblicò una silloge di epigrammi sepolcrali: ora in italiano da Bompiani, a cura di Emanuele Lelli, traduttore Franco Mosino

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 16 giugno 2019

Duemila poesie. Epigrammi composti lungo vari secoli, conservati per lo più come iscrizioni su pietra, provenienti da diverse regioni del Mediterraneo greco. Testi condensati in pochissimi versi, oppure più distesi, a narrare storie di defunti (uomini donne bambini, ma anche animali da compagnia). Vite raccontate in prima persona, o dalla tipica «voce anonima». Esistenze normali, in qualche caso speciali, o almeno illuminate da un evento straordinario e memorabile – comprese proprio le circostanze della morte.
È questo il contenuto del corposo volume di Epitaffi greci raccolti anni fa dal filologo Werner Peek (1904-1994), ora tradotti da Franco Mosino, riveduti e prefati da Emanuele Lelli (Bompiani «Il pensiero occidentale», pp. CV-1526, € 55,00).Nel sottotitolo, il nome del curatore della raccolta originale, edita nel ’55, e la celebre Antologia di Spoon River, pubblicata da E. Lee Masters nel 1915. L’accostamento, proposto solo nell’edizione italiana, non è forse così evidente: coglie il carattere narrativo comune a tutte le poesie destinate alle tombe, e però minimizza le differenze tra le due sillogi. Vi sono differenze importanti nelle dimensioni (solo poche decine di epitaffi fittizi formano il cimitero di Spoon River, mentre le iscrizioni raccolte sono due migliaia) e nelle «mani» (un solo autore in Lee Masters, autori diversi e quasi tutti anonimi qui). Nel volume di Peek i testi sono disposti secondo «forme» e «tipi», un criterio che fu preferito ad altri quali la cronologia (molti testi non sono databili con precisione) o la provenienza (non sempre accertabile). Nell’introduzione originale, non tradotta per l’edizione italiana (come non lo è l’indice), Peek spiegava che gli epigrammi sono raggruppati anzitutto seguendo la forma dell’incipit, dove si leggono formule rimaste quasi invariate per secoli («Questo sepolcro innalzò…»; «Qui giace…»; «Qui la terra copre…»). Altre sezioni invece riuniscono i testi in cui è il defunto stesso a parlare, quelli in cui parlano altri, quelli con i «dialoghi» tra la tomba e il passeggero, e così via. Le caratteristiche della silloge di Peek, concepita prima della Seconda guerra mondiale ma èdita assai più tardi, sono ben illustrate dall’utile introduzione di Lelli, che in quasi cento pagine racconta la storia dell’epigramma greco, la tradizione dei testi, l’organizzazione del volume.

Alcuni vengono da regioni isolate o marginali
Mette conto indicare dove stia l’interesse della raccolta. Come genere poetico, l’epigramma greco appare oscillante tra l’ambito colto e quello più popolare. Era un componimento diffuso anche nelle realtà periferiche della grecità (alcuni provengono da regioni marginali o isolate), che spesso esprimeva motivi legati alle mentalità (in questo caso, il modo di pensare la morte, le concezioni dell’aldilà). Il carattere «privato» lasciava spazio alle vicende di uomini e donne «non illustri», o agli atteggiamenti di artigiani, medici, attori, mercanti e marinai. Vi si trovano rappresentati livelli di cultura medi o diffusi, e non solo il distillato sapere di filosofi o dotti. Scrivevano epigrammi colti letterati come Callimaco e modesti poeti di provincia, che versificavano talora Apolline nullo (ossia «senza ispirazione»); componevano versi anche le donne, seppur poche siano documentate. Eppure tra i prodotti alti e quelli più corrivi c’è una familiarità, che proprio questa raccolta rende visibile: essa è costituita non tanto da selezionati capolavori ma da documenti di una civiltà poetica, differenti tra loro per qualità, come i sonetti del Petrarca rispetto alle raccolte «per nozze» che hanno ammorbato l’Italia per decenni. Si leggono così testi meglio costruiti, con riprese di autori importanti, e altri più banalmente topici, che combinano insieme le solite riflessioni sulla morte anzitempo, le circostanze del decesso, la vita del defunto, il dolore dei superstiti, e «ti/gli sia lieve la terra». Si riconoscono talora, più o meno riusciti, giochi formali cari come acrostici o isopsephoi (giochi sul valore numerico delle lettere), si incontrano alcuni carmi in vari metri, alcuni epigrammi «lunghi», che rompono la consuetudine della brevità. Si affacciano individui che vivevano in aree culturali particolari, per esempio mettendo insieme la cultura greca e quella egizia, o praticando la lingua dei romani e quella dei greci: fenomeni che appunto non sempre la letteratura «alta» rende visibili.
Nella lunghissima sequenza di epitaffi, proprio come quando si visitano i cimiteri (compreso quello di Spoon River) alcune lapidi attirano l’attenzione e restano impresse: così la storia di Demetrio, sgozzato da un servo infedele e morto nell’incendio della propria casa (n. 1120, dall’Asia Minore, II secolo a.C.), o l’edificante vicenda di Pomptilla, premorta al marito Filippo e celebrata come una nuova Alcesti in un breve ciclo di epigrammi in greco e latino (n. 2005, da Cagliari, I/II secolo d.C.).

Mancano indicazioni relative ai supporti
Il libro italiano è diverso in molti aspetti dal «modello». La principale innovazione è la presenza delle traduzioni. Nel volume di Peek, l’unico effettivamente pubblicato di una progettata edizione delle iscrizioni metriche, le poesie sono solo in greco, e accompagnate da un apparato critico con i dati sul testo e gli interventi critici. Nell’edizione Bompiani tale materiale è sostituito da brevi annotazioni di commento su natura del testo, provenienza, datazione: spunti in genere utili, ma non sempre in grado di orientare il lettore (es. n. 1156). Purtroppo tali note non sono poste a piè pagina, bensì relegate alla fine del volume (pp. 1161-1386), il che lascia «soli» gli epigrammi, introdotti semplicemente da un titolo (moderno, e assente nel Peek).
La traduzione a fronte, opera di Mosino (1932-2015), è definita nel libro «coraggiosa e talvolta creativa». In genere essa regge il confronto con l’originale greco, anche se non sempre basta una inversione a rendere poetico lo stile (ma appunto, i testi non sono tutti di fattura eccellente). L’espressione talvolta è oscura in greco, e ciò spiega certe difficoltà, e anche qualche svista nella traduzione (altra origine avrà il «leggittimo» che compare due volte, nell’introduzione e a p. 1068). Del resto, il volume è corposo, e frutto di un complesso lavoro redazionale che ha implicato anche la revisione del testo, e indotto qualche sfasatura (vedi n. 1014, dove testo e traduzione non corrispondono). I limiti maggiori derivano però dalla struttura dell’edizione Peek. Non viene detto, per esempio, se i testi siano oggi conservati, e in quale luogo. Manca qualunque illustrazione relativa ai supporti, di differente forma e epoca, su cui i testi stessi (tranne quelli di tradizione non epigrafica) erano incisi: una stele, una colonna, un rilievo, un sarcofago. Assenza tanto più notevole, in quanto in molti casi il testo poetico allude o esplicitamente si riferisce a qualche elemento figurativo del sepolcro. Le iscrizioni ci giungono allora come «smaterializzate», e risulta impossibile immaginarle, come voleva l’epigrafista Louis Robert, nel loro contesto antico, ossia come fisici monumenti, oltre che come virtuali documenti di una civiltà. Civiltà non sempre rasserenata, per altro. Non sempre il dolore si ricomponeva nelle pacate forme di un bassorilievo attico: talora gli animi erano inquieti. Un epigramma egizio del IV secolo d.C., che non rappresentava l’opinione generale sul tema, liquida, in un congedo di algida lucidità, le illusioni della tradizione (n. 1906): «Non c’è nell’Ade la barca, non c’è il traghettatore Caronte, non c’è il guardiano Eaco, né il cane Cerbero: ci siamo invece tutti quelli di quaggiù, i morti, che diventammo ossa, cenere, di altro non c’è una sola cosa. Ti dissi la verità: procedi, o viandante, perché, pur da morto, io non ti sembri ciarliero».

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