Un dettaglio della “Croce dipinta” del Maestro di San Francesco, 1272, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Il catalogo della mostra Il Maestro di San Francesco e lo ‘stil novo’ del Duecento umbro (a cura di Andrea De Marchi, Veruska Picchiarelli, Emanuele Zappasodi; SilvanaEditoriale), con il bellissimo dettaglio del Crocifisso della Galleria Nazionale dell’Umbria, è appoggiato di fronte a me in cima a una pila di libri. Poco distante c’è una stampa di Utagawa Kunisada del 1852, con l’attore Segawa Kikunojo V nel ruolo del kitsune-volpe Tadanobu. Dalla scrivania da cui sto scrivendo le due immagini quasi si sovrappongono, istituendo un rapporto favorito della mia prospettiva personale. In entrambe si ritrovano la sinuosità di linee sottili che definiscono forme guizzanti ed espressioni caricate come arabeschi, la ricchezza degli ornati, la superficie lavorata con rilievi (le impronte delle matrici sulla carta washi, la granitura e le applicazioni metalliche sulla tavola). I colori accesi e iridescenti sono accostati per campi. Non c’è verità in senso stretto: entrambe le immagini si agganciano più al pensiero che alla realtà, e seducono per la loro bellezza gioiosa, felicemente bidimensionale, con un astrattismo a cui il Novecento ci ha riabituati. È una delle chiavi per apprezzare oggi una e l’altra opera, malgrado la nostra conoscenza difetti tanto sul teatro giapponese quanto sul senso profondo che ha mosso il pennello del Maestro di San Francesco.
Il Crocifisso è il perno, critico ma anche fisico, della mostra, aperta fino al 9 giugno. La colossale tavola, ideata per San Francesco al Prato a Perugia, è uno dei capolavori conservati alla Galleria Nazionale dell’Umbria; sul piede della Croce è iscritto un 1272: è l’unica data certa per questo maestro senza nome. Intono all’opera si è ricostruito un panorama articolato che dà conto di decenni intensi, in cui i cambiamenti di prospettiva indotti da San Francesco e dai suoi seguaci, dirompenti quanto una rivoluzione, incalzano gli artisti.
L’esposizione si apre sulla stauroteca del Museo Diocesano di Cosenza, donata al duomo della città dall’imperatore Federico II nel 1222. Il reliquiario è lì per testimoniare dei legami culturali e politici che transitavano sulle acque del Mediterraneo. In questa prima metà del secolo è Giunta Pisano l’artista di riferimento; e anche Giunta sfrutta le relazioni tra oriente bizantino, Stati crociati e centri della Penisola: nelle sue croci dipinte l’immagine di Cristo, come nella pittura greca, spinge a compassione enfatizzando il dramma, l’espressività del corpo straziato, livido e torto da uno spasmo di dolore del tutto umano.
L’umanità del Salvatore è nelle corde del nuovo ordine francescano, e quando la chiesa di Assisi, costruita in brevissimo tempo per accogliere il corpo di San Francesco, è pronta, nello spazio della basilica superiore è collocata una grande croce di Giunta con Cristo sopraffatto dalla morte. Sul suppedaneo era ritratto frate Elia, tra i primi seguaci di Francesco. Il crocifisso, perduto nel XVII secolo, incombeva su Elia in preghiera e quindi sui fedeli, cercando una partecipazione emotiva al martirio.
Nella basilica inferiore c’era invece la tavola agiografica su cui è ritratto Francesco con i quattro miracoli avvenuti dopo la sua morte. L’idea, argomentata tra mostra e catalogo, è che la tavola, ora al Museo del Sacro Convento, sia stata verosimilmente architettata da Giunta proprio per questo luogo: doveva chiarire come i miracoli fossero avvenuti in presenza del corpo del santo. In mancanza di una sepoltura vera e propria, era infatti l’altare della basilica inferiore, sotto cui era celato dal 1230 il corpo di Francesco, a sprigionare gli stessi poteri taumaturgici delle spoglie. Seguendo la stessa logica, circa trent’anni dopo lo spazio della basilica inferiore si arricchiva come un reliquiario praticabile, sfolgorante di colori smaltati e materiali lucenti. Alla povertà radicale di Francesco in vita si contrapponeva una sua glorificazione in morte che non doveva avere paragoni per sforzo materiale. Come in un passaggio generazionale – che presuppone anche un cambio di passo culturale –, i dipinti che ricoprono le pareti dell’aula sono realizzati dal Maestro di San Francesco. Le alterazioni dei pigmenti e le modifiche architettoniche subite hanno menomato il doppio ciclo, cristologico e francescano, di cui in mostra si propone una ricostruzione immersiva.
In questo momento Perugia è un centro culturale cosmopolita: la curia di Innocenzo IV vi si trasferisce per un anno e mezzo, mentre il cantiere della basilica di Assisi attrae maestranze d’oltralpe impegnate soprattutto nelle vetrate. L’anonimo maestro umbro è completamente immerso in quel crogiolo. Alla lezione di Giunta si aggiungono perciò notazioni più naturalistiche e ornati coloratissimi, quasi intarsi di vetro, leggibili a pieno nella tavola della Porziuncola ora in mostra. Il San Francesco e due angeli è dipinto sulla tavola che servì da giaciglio al santo, e sulla quale Francesco fu posto dopo il decesso. È quindi una reliquia da contatto, su cui il corpo è riproposto come su un sudario, con tutti i segni che i frati scoprirono alla morte e che Francesco aveva tenuto nascosti fino all’ultimo: le stigmate e la ferita sul costato. L’immagine di San Francesco come alter Christus si è ormai canonizzata.
Il santo di Assisi è invece accanto agli apostoli, come un membro aggiunto nel consesso stretto di Cristo, nel dossale di San Francesco al Prato a Perugia. L’opera, divisa in frammenti sparsi tra Italia e Stati Uniti, è dipinta a ridosso del Crocifisso che in mostra gli è stato giustamente messo in prossimità, per riguadagnare un rapporto interrotto con la dispersione. È un oggetto centrale nella definizione generale della pala d’altare come dell’immagine del santo assisiate. Il rapporto con il sarcofago del IV secolo utilizzato nella stessa chiesa come sepolcro per il beato Egidio, il terzo compagno di Francesco, rende anche conto dell’abilità del Maestro di San Francesco di mescolare piani diversi, tra leggenda, storia e cronaca, per potenziare l’invenzione iconografica. Come se nelle rigide e ripetitive maglie della teologia fosse penetrata la narrazione popolare, in una lingua che è quella della nuova classe sociale emergente fatta di laici, borghesi e commercianti cresciuti nelle vivacissime città del centro Italia.
È un cambio di paradigma che sta per aprire la strada alla modernità, superando il repertorio bizantino fatto di schemi mentali e realtà metastorica con l’innesto di una tangibilità umana, storica, presente. Lo si coglie anche in altri episodi, come nelle Storie di Santa Chiara prestata dalla basilica assisiate dedicata alla santa. La narrazione del Maestro di Santa Chiara ha un ritmo vivace grazie all’uso di piccole notazioni che dimostrano un’attenzione, in nuce, al modello reale, nella descrizione delle vesti e di alcuni oggetti, ma soprattutto nella gestualità parlante e negli sguardi.
E mentre si seguono, tra dossali e pagine miniate, le trame dei rapporti, il quadro generale della pittura umbra del secondo Duecento si allarga all’intero Mediterraneo. Tra le sale dell’esposizione e le pagine del catalogo si susseguono delle svolte sostanziali rispetto agli studi precedenti, chiarendo cronologie e personalità in schede che non si risparmiano su nulla, dalla fortuna critica alle precisazioni sui processi creativi e sulle aspettative che stanno a monte delle invenzioni figurative. È un grande lavoro che non semplifica mai ciò che semplice non è, ma che si può godere anche senza spaccarsi la testa tra confronti e attribuzioni che sono, in molti casi, il K2 della storia dell’arte. L’impegno è coerente con le precedenti bellissime mostre della GNU (vanno ricordate almeno quelle su Taddeo di Bartolo e Perugino): un finale degno degli anni di direzione di Marco Pierini.
Si chiude con le prime aperture al gotico europeo, nelle silhouettes flessuose e inarcate del Maestro del Dossale del Battista, come – per tornare all’inizio – da attori e danzatori del teatro Kabuki. Poi ci sono Cimabue e la sua influenza: la sua potenza espressiva è il nuovo orizzonte con cui bisogna fare i conti. Li fa sicuramente Vigoroso da Siena, quando nel 1291 licenzia la tavola per l’altare maggiore di Santa Giuliana a Siena, mentre ad Assisi sta emergendo il giovane Giotto. L’espressività della pittura umbra, inaugurata proprio dal Maestro di San Francesco, si scontra con la misura razionale del toscano: la rivoluzione si gioca ancora sul campo di Assisi, che resta un palcoscenico privilegiato per le arti, mentre il Medioevo si appresta alle sue battute finali.