Vincenzo Gemito, “Cantatrice”, ca. 1875, part., terracotta, collezione privata

La palazzina è d’un festoso azzurro con finestre e balconi il cui bianco, un po’ schiumoso, ricorda il candore degli stucchi rococò; la strada, cosparsa qui e lì di villini ottocenteschi, come coriandoli, tra fabbricati ben più anonimi, è viale Gabriele d’Annunzio. La città di Pescara prende, nel luogo dove sorge la Fondazione Di Persio-Pallotta, dal liberty di alcune delle costruzioni un po’ dell’aria allegra e spaesata che hanno tutti gli stili espiantati. Ora, tanto la ristrutturazione dell’edificio, che prima ospitava la Banca d’Italia e adesso il museo, quanto la collezione sono il risultato della volontà dei coniugi Venceslao Di Persio e Rosanna Pallotta. Si deve essere perciò innanzitutto grati ai due collezionisti per aver donato alla città una raccolta d’opere di prim’ordine e una sede per accoglierle. Se poi si tratta, com’è questo il caso, di una crestomazia non soltanto d’eccellente qualità ma anche di notevole importanza storica, ciò torna a ulteriore onore della coppia.
Di rilievo storico si diceva, sì, giacché la selezione di opere comprende tanto i pittori italiani quanto i francesi della seconda metà dell’Ottocento, e fra questi due poli, l’Italia e la Francia, tutta la fitta rete di fili che le legarono, e cioè fuor di metafora, quegli artisti che si formarono a Parigi per poi rientrare in Italia, e quelli che vi restarono, e quelli ancora che periodicamente vi tornarono per aggiornarsi, pur elaborando un linguaggio che aveva le sue radici nella tradizione figurativa nazionale. Abbiamo Courbet, dei magnifici Diaz, Rousseau, ma anche Palizzi, Rossano e, naturalmente, De Nittis. Ne risulta così un racconto più omogeneo, liquido e corale del nostro Ottocento, assai meno angusto, settario e parrocchiale di come lo si è a lungo proposto.
Anche Vincenzo Gemito e Antonio Mancini – ai quali, fino all’11 marzo, è dedicata la mostra temporanea, particolarmente doviziosa, a cura di M. Carrera, F. Mazzocca, C. Sisi e I. Valente (catalogo SilvanaEditoriale) – soggiornarono per un certo periodo a Parigi, dove la loro opera fu molto apprezzata. Mancini vi si recò due volte, nel 1875 e nel 1877, Gemito lo raggiunse nel 1877. I lavori del primo erano venduti da Goupil e acquistati, tra gli altri, da Paul Bourget, l’autore degli Essais de Psychologie Contemporaine e del romanzo Cosmopoli, dedicato al conte Primoli; entrambi esposero al Salon des Beaux-Arts e all’Exposition Universelle del 1878. Avevano avuto sorti simili, i due amici: una stessa formazione presso lo scultore Stanislao Lista, e poi al Reale Istituto di Belle Arti di Napoli. Anche i soggetti per un certo periodo furono accostabili: pescatorelli, acrobati, scugnizzi, tutta quella umanità sciamante da un fondo di alacre miseria, che stupiva già i viaggiatori dei tempi di Goethe. Ne ammiriamo in mostra alcuni esempi. In Mancini: Scugnizzo (1880), Scugnizzo in ozio (1875), Scugnizzo con salvadanaio (1874) o Il piccolo fioraio (1886). Da parte sua Gemito descrisse la stessa povera gente in Scugnizzo. Studio dal vero (1872), nel Pescatore (1875) e nelle varie figure di Pescatorello, piccoli bronzi realizzati dopo il 1875, dove il gusto per il vero appare più prossimo a quello d’un Boeto di Calcedonio che al nerboruto naturalismo di uno Zola o, da noi, di un Verga, il che spiega la fortuna che queste statuine, anche in calchi degradati, assai lontani dalla perfezione degli originali, riscossero presso la borghesia ottocentesca.
Gemito, d’altro canto, si diceva ammiratore dei Greci, e l’occhio con cui guarda questi piccoli lavoratori del mare non è poi tanto distante da quello di certi nostalgici fin de siècle del mondo pagano, come August von Gloeden (si confronti lo Studio di pescatore di Gemito con le famose fotografie che il barone tedesco realizzò a Taormina), o come Jacques Fersen che, nella villa Lysis di Capri, sognò di ripristinare gli usi ellenici. L’uno e l’altro, poi, seppero rendere con tale estenuata raffinatezza il rapimento trasognato di una giovane gitana, lo sbigottimento impotente di un bambino malato o ancora l’attonito stupore di un fanciullo, certe emozioni primitive e inarticolate, insomma, che non sorprende l’ammirazione professata, almeno per uno dei due, dal decadente D’Annunzio.
Tanto in Gemito quanto in Mancini è una stessa ipersensibilità, nervosa e sensuale, verso i soggetti, sensibilità che li portò a lavorare indefessamente la materia, pittorica l’uno, scultorea l’altro. I risultati più alti Mancini li raggiunge laddove questa febbre si equilibra in notazioni psicologiche incisive e in risalti cromatici misurati e decisi: La lacrima (1887), col suo semplice sfondo rosso e ocra e la veste nera della donna, Bimbo con la rosa in bocca (1871), Dopo il duello (1872), Prevetariello in preghiera (1873), Il piccolo fioraio (1886). Gemito fu anche un superbo disegnatore. Nei suoi numerosi autoritratti, così come in quelli della moglie Anna e del padre adottivo «Masto Ciccio», notiamo un modo di procedere opposto a quello degli impressionisti: i valori pittorici, le luci, le ombre, i contrasti sono qui ottenuti non con lo sfumato, ma per mezzo del vigore copioso della linea, che, pur tra certe movenze liberty, ha la travagliata morsura di un’acquaforte.
Sebbene i curatori abbiamo preferito procedere più per via di accostamenti fra le tele che seguendo un ordine strettamente cronologico, è impossibile non notare le differenti strade intraprese a un certo punto dagli artisti. La pittura di Mancini, divenuta sempre più materica, come in Venditore di frutta (1896) oppure in Musicante in festa (1896), assunse quei toni cristallini e minerari che ispirarono una famosa impertinenza a Bruno Barilli, ma destarono l’ammirazione di Venturi; lo scultore finì invece per coincidere sempre più con la figura che aveva tratteggiato di lui D’Annunzio – nella prefazione dell’Ode a Verdi – di «giovanotto campano» nel quale era come se «rivivesse l’anima religiosa dello statuario ateniese intento a cogliere le attitudini degli efebi e delle canefore nella processione delle Panatenaiche». E a una degradata stirpe divina fa effettivamente pensare quella sua Medusa (1923) dalle gote floride di popolana e le labbra tumidette: simile doveva apparire ai viaggiatori descritti da Heine il vecchio Giove, le cui mani, non più avvezze a maneggiar la folgore, si erano fatte ossute e nodose a furia di conciare pelli di coniglio.
Ma le divergenze tra i due amici non furono soltanto estetiche. Profondi dissapori li allontanarono, dopo che a Parigi avevano per qualche tempo condiviso lo stesso appartamento. «La mia fortuna è stata la santa modestia, e con quel fior di canaglia mi salvo solo col piglia e regala», scrive Mancini del suo compagno. Molte cose, tuttavia, li avrebbero uniti ancora, e tra queste la depressione, la malinconia, il demone di Saturno che sfiorò l’uno e rapì l’altro per ben diciotto anni.
Li ritroviamo insieme in una fotografia dell’inizio degli anni venti seduti in un giardino a Napoli, assieme al pittore Giuseppe Casciaro, e, quel che ancor di più conta, in questa bella esposizione che ne raffronta l’opera, i soggetti, esaltandone le affinità: quella trama di simpatia per l’umile popolino che poggiava forse sulla comune origine modesta dei due creatori, come scrisse ancora D’Annunzio dell’uno con parole che, però, s’attagliano bene anche all’atro: «era povero, nato dal popolo; all’impalcabile fame dei suoi occhi veggenti, aperti su le forme, si aggiungeva talora la fame bruta che torce le viscere».