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Dudreville, reazione futurista all’ortodossia futurista

Dudreville, reazione futurista all’ortodossia futuristaLeonardo Dudreville, Nel bosco di castagni, 1916, Cento, Galleria d’Arte Moderna «Aroldo Bonzagni»

A Lucca, Fondazione Ragghianti Leonardo Dudreville fu tra le figure che, a partire dal 1913, si opposero al dogmatismo estetico di Boccioni e Carrà per difendere, nel deflagrare delle ricerche, il primato del «retinico»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 18 dicembre 2022
Gino Severini, «Studio della testa di L. D. (Ascoltando la musica)», 1907, collezione privata

Il Futurismo è stato spesso raccontato come un fenomeno unitario, lineare nel suo svolgimento storico e, soprattutto, vincolato tanto alle direttive del suo ideologo-demiurgo (Filippo Tommaso Marinetti) quanto alle gesta «eroiche» dei primi adepti. In realtà, sin dalle origini, la pretesa unitarietà del Futurismo è stata minata da dialettiche interne che hanno contribuito a far assumere al movimento un’identità prismatica.

Defezioni più o meno volontarie, allontanamenti e secessioni erano all’ordine del giorno già all’indomani della divulgazione delle incendiarie tesi marinettiane (1909). È peraltro indicativo che nella prima stesura del Manifesto dei pittori futuristi (1910) figure di riferimento come Giacomo Balla e Gino Severini non comparissero tra i firmatari; a quell’altezza cronologica, infatti, il nucleo storico degli affiliati era ancora indefinito, così come ancora vaga – e nutrita di retaggi simbolisti – era la poetica del movimento che, in quei cruciali anni d’incubazione, si rivelava percorsa dalle interferenze di personaggi impropriamente considerati minori, o comunque laterali, come Aroldo Bonzagni, Romolo Romani e Leonardo Dudreville. A quest’ultimo e alla sua ricerca «eretica» proposta in antitesi all’«ortodossia» di Boccioni e compagni è dedicata la mostra, a cura di Francesco Parisi, Leonardo Dudreville e Nuove Tendenze. L’avanguardia degli anni Dieci, organizzata a Lucca presso la Fondazione Ragghianti (fino all’8 gennaio 2023, catalogo Silvana Editoriale). L’esposizione si inserisce perfettamente nella prospettiva intellettuale di Carlo Ludovico Ragghianti, storico dell’arte poliedrico che, alla fine degli anni cinquanta, fu il primo a compiere studi preliminari sulla cerchia di Nuove Tendenze in vista del progetto – presto fallito – di una retrospettiva sul Futurismo per la Biennale di Venezia.

La vicenda presa in esame – mai del tutto entrata nel canone della storiografia sul Futurismo nonostante i successivi affondi di Ballo, Thea e Crispolti – si rivela paradigmatica perché ha approfondito problematiche cardine della prima avanguardia, ad esempio l’impulso all’astrazione oppure il profilarsi di una linea architettonica modernista ma intrisa di umori visionari (non bisogna dimenticare, in proposito, l’iniziale partecipazione di Antonio Sant’Elia a Nuove Tendenze).

Con scrupolo filologico e attenzione alla qualità delle opere esposte, la mostra concorre a far emergere le inquietudini di quegli artisti d’area lombarda che pur gravitando attorno al composito universo futurista si trovarono a essere distaccati, sia per convinzioni personali sia per diffidenze esterne, dal direttivo ufficiale. Il sodalizio Nuove Tendenze si formò già nel 1913 su impulso di un eterogeneo drappello di giovani pittori e architetti – oltre ai citati Dudreville e Sant’Elia, Achille Funi, Carlo Erba, Mario Chiattone – ansiosi di trovare un proprio spazio all’interno della nascente avanguardia italiana. Fu così che, ricalcando le strategie di autopromozione testate dai seguaci di Marinetti, nel marzo 1914 venne diramato un manifesto e, tra il maggio-giugno dello stesso anno, si tenne presso la Famiglia Artistica di Milano l’unica manifestazione espositiva legata al neonato organismo.

Il delinearsi di Nuove Tendenze portava con sé uno spiccato dissenso verso la facies del Futurismo configuratasi dopo l’exploit internazionale del fronte marinettiano (1912). Tali malumori, oltre che causati da questioni d’ordine estetico, avevano a che fare con l’isolazionismo caldeggiato da leader ingombranti – come Boccioni e Carrà – allarmati dalla possibilità di veder usurpato il loro primato. Ed è proprio nel fatale 1914 che le forze fino a quel momento minoritarie interne al Futurismo andarono a deflagrare in scenari sempre più autonomi: si pensi alle spinte indipendentiste rivendicate da Papini e Soffici sulla rivista «Lacerba», oppure all’allargamento su larga scala del movimento verificatosi, tramite le cruciali adesioni di Depero, Prampolini e Sironi, in occasione dell’Esposizione Libera Futurista presso la galleria Sprovieri di Roma.

Nel programma di Nuove Tendenze era sottesa l’esigenza di superamento dello sfrenato sperimentalismo futurista portato avanti – anche in risposta alle novità di matrice cubista – dai campioni accreditati del movimento. Il Futurismo, tra il 1913 e il 1914, stava irreversibilmente assumendo quel carattere decostruttivista e rivoluzionario che, ancora nel 1921, veniva celebrato da Gramsci sulle pagine de «L’Ordine Nuovo»: Boccioni si approcciava al polimaterismo avviandosi verso soluzioni «antigraziose» sempre più tese alla sfera ambientale; Carrà e Severini, parallelamente, si aprirono alla pratica del collage contaminando le loro opere di espliciti prelievi oggettuali. Ed è forse proprio dalla necessità di mantenere il lavoro creativo saldamente ancorato a quella dimensione retinica da più parti messa in discussione che si originò l’opzione Nuove Tendenze.

Oltre a funzionare da alternativa alle posizioni maggiormente seguite in seno al Futurismo «ufficiale», essa lasciava affiorare i sintomi di una precoce e rivelatoria prima crisi dell’avanguardia che di lì a poco avrebbe contagiato anche i futuristi più intransigenti, si pensi alla svolta cézanniana intrapresa da Boccioni prima della scomparsa prematura (1916), oppure ai rivolgimenti classicisti seguiti tanto da Carrà e Severini quanto da Dudreville e Funi i quali, all’alba degli anni venti, divennero i cantori del novecentismo sarfattiano.

Gli assunti teorici pubblicati nel catalogo della mostra del 1914 lasciano intendere quanto il nuovo indirizzo non fosse semplicisticamente reazionario ma nascesse dal bisogno di disciplinare, e riscattare, gli estremismi nichilisti insiti in una certa ala del Futurismo: in contrasto agli allora diffusi sconfinamenti extra-artistici Dudreville marcò la centralità di forme d’arte legate «al dominio puro del senso “vista”».
L’attività di Dudreville – nato a Venezia ma formatosi all’Accademia di Brera – enuclea bene l’ampio raggio di suggestioni recepite dai membri di Nuove Tendenze. Dopo una fase divisionista – comune a tutti i protagonisti del Futurismo – egli si dimostrò propenso ad assimilare schemi compositivi elaborati da Gino Severini, artista con cui negli anni giovanili fu in contatto. In via diretta o indiretta fu poi al corrente di ciò che di più avanzato circolava tra le avanguardie d’Oltralpe. Al di là delle assonanze mutuate dall’Orfismo di Delaunay, creò opere, come Urto del tragico (1913), pionieristicamente sviluppate in senso astratto (e, non a caso, l’artista venne accusato da Prampolini di essere un «volgarizzatore» degli stilemi di Kandinsky). Infine, in un lavoro affascinante e inconsueto quale Aspirazione (1917), Dudreville palesò un afflato misticheggiante prossimo sia alle frequenze del Blaue Reiter sia all’immaginario utopico del Novembergruppe.

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