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Ducrot: ordito e trama, umano e divino

La mostra "Tessere è umano" con il pannello mesoamericano e i lavori di Isabella Ducrot, foto © Giorgio BenniLa mostra "Tessere è umano" con il pannello mesoamericano e i lavori di Isabella Ducrot – Giorgio Benni

A Roma, Museo delle Civiltà, "Tessere è umano: Isabella Ducrot e le collezioni del Museo delle Civiltà di Roma", a cura di Anna Mattirolo e Andrea Viliani Le combinazioni tessili di Isabella Ducrot interrogano una camicia talismanica, una «preghiera» tibetana blu, una stoffa indonesiana... Come il contemporaneo può rianimare un prezioso patrimonio

Pubblicato circa 8 ore faEdizione del 20 ottobre 2024

Nel 1980, in occasione della riorganizzazione delle collezioni africane del Museo Pigorini, venne ritrovato un oggetto di cui si erano perse le tracce: un indumento realizzato nell’Impero ottomano nel 1665 circa e approdato poco dopo a Roma nelle collezioni di Athanasius Kircher. Si tratta di una rarissima camicia talismanica in tela di cotone bianca, con corpetto, maniche e colletto coperti di iscrizioni a caratteri arabi in blu, nero, rosso e oro, disposte in una elaboratissima composizione simbolica che culmina con i 99 nomi di Allah racchiusi nella decorazione del colletto. Un mistico sufi, un astrologo, un calligrafo e almeno un illuminatore hanno concorso alla realizzazione di questa stupefacente pagina miniata in tessuto che aveva la funzione di proteggere dalla mala sorte il personaggio di alto rango che la indossava.

La camicia talismanica è il punto di partenza della mostra Tessere è umano: Isabella Ducrot e le collezioni del Museo delle Civiltà di Roma (a cura di Anna Mattirolo, Andrea Viliani con Vittoria Pavesi, fino al 16 febbraio), che raccoglie alcuni straordinari tessuti conservati nelle collezioni del museo assieme a opere di Isabella Ducrot nelle quali i tessuti sono protagonisti.

Nel grande ambiente dove è allestita la mostra attraversiamo cinque continenti e quasi quattro secoli di storia delle collezioni: a partire dal «Teatro del mondo» fondato da Athanasius Kircher nel 1651, attraverso le relazioni diplomatiche vaticane e l’ambiziosa istituzionalizzazione compiuta da Luigi Pigorini alla fine dell’Ottocento, fino alle raccolte dedicate alle tradizioni popolari e alle colonie, nelle quali prendono forma quotidiana irrisolte tragedie novecentesche.

Incontriamo, per la prima volta raccolti insieme, frammenti preistorici, sopraffini kimono giapponesi, evanescenti garze precolombiane e tessuti in corteccia dell’Oceania e dell’America latina.

Tutto si tiene insieme in virtù dell’intreccio di trama e ordito, struttura essenziale di ogni tessuto, e della storia di Isabella Ducrot. Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà dal 2022, ha eletto il coinvolgimento di artisti contemporanei a metodo per esplorare e ri-semantizzare le collezioni, ma questa mostra si discosta da altri progetti in corso.

Da vari decenni Isabella Ducrot raccoglie stoffe in tutto il mondo e di tessuti ha anche scritto in varie occasioni. Più che ricerca di manufatti rari o di particolare valore, il suo è un collezionismo di tracce umane rimaste imbrigliate nei pezzi di stoffa, nel quale è centrale l’attenzione ai tessuti che fanno da tramite tra l’umano e il divino.

Non lontano dalla camicia talismanica è esposta una preghiera tibetana blu del XVII secolo proveniente dalla sua collezione, nella quale il testo non è ricamato o dipinto a posteriori ma elemento strutturale del tessuto: ordito e trama. Questo intreccio costitutivo tra la dimensione materiale e quella immateriale è l’elemento ricorrente di tutti i manufatti in mostra.

Negli anni ottanta Ducrot ha cominciato a combinare nei suoi lavori d’artista i tessuti che aveva raccolto, restituendogli il valore d’uso che avevano perduto quando erano diventati pezzi da collezione, come scrisse Patrizia Cavalli molti anni fa. Anche il più prezioso dei tessuti è quasi sempre servito a qualcosa, ma persino il più umile è stato contemplato.

Riuscire a tenere in vita la dimensione d’uso degli oggetti, lasciando spazio alla loro contemplazione, è forse la sfida maggiore per un museo di collezioni etnografiche, e senza dubbio i tessuti che ci accompagnano dalla nascita alla morte sono la categoria ideale per coglierla: palinsesti, documenti e linguaggi; inconsapevoli strumenti di trasmissione e mediazione culturale; frutti corali di imprese collettive; merce di scambio e trofeo di conquista.

In alcuni casi la funzione spirituale è espressa nella struttura stessa della stoffa, vedi l tessuto rituale indonesiano realizzato a Sumatra nel XIX secolo, dove parte della trama non viene completata e i fili dell’ordito non vengono tagliati perché rappresentano la circolarità della vita e conferiscono al tessuto un potere protettivo.

La preghiera tibetana, la camicia talismanica e il tessuto indonesiano, posti al centro della sala e circondati da alcuni lavori recenti di Isabella Ducrot, sono membrane tra la temporalità del corpo e l’atemporalità dello spirito.

Attorno a questo centro gravitano umiltà e potenza, ricchezza e potere di scambio, vita quotidiana e riti di passaggio.

Un punto di raccordo suggestivo con la ricerca di Isabella Ducrot è la vetrina con indumenti e costumi di uso quotidiano provenienti dalle Collezioni di arti e tradizioni popolari e dedicata ai tessuti a quadretti. La stoffa a quadri è il titolo di un saggio (Quodlibet, 2018) nel quale Ducrot racconta della sua epifania di fronte all’Annunciazione di Simone Martini (Uffizi, 1333): nel celeberrimo trittico a fondo oro, summa della sinuosa preziosità del pittore senese, il mantello svolazzante dell’Angelo annunciante è foderato di una stoffa a quadretti, pattern domestico e umile per eccellenza e ciò nonostante scelto dell’artista per mostrare la sua straordinaria maestria.

Dal lato opposto incontriamo un rarissimo manufatto tessile mesoamericano cinquecentesco che secondo la tradizione, probabilmente celebra un condottiero che all’arrivo degli spagnoli scelse di schierarsi dalla parte di Hernan Cortés, e forse per questo è decorato con aquile bicefale di ascendenza asburgica.

In questo caso ordito e trama ospitano delle preziosissime piumette cangianti – i popoli americani consideravano gli oggetti impiumati depositari di forza divina – e danno vita un tessuto che è monumento e poema del tracollo delle potenze precolombiane.

Pur lavorando da decenni, Isabella Ducrot ha incontrato la fama tardivamente, a ottant’anni compiuti: l’estate scorsa le è stata dedicata una grande retrospettiva al Consortium di Digione e il prossimo anno sarà la volta del Museo Madre di Napoli.

È anche la protagonista di Tenga duro signorina. Isabella Ducrot Unlimited, un documentario di Monica Stambrini presentato all’ultimo festiva di Venezia e in sala in questi giorni, che osserva come persino la vecchiaia, uno degli ultimi tabù, non sia poi così terrorizzante. Rispetto a questi progetti la mostra Tessere è umano va ben oltre la persona dell’artista o la celebrazione della sua opera: come nei tessuti oceanici o sud-americani, in alcuni lavori Isabella Ducrot usa la corteccia, e basterebbe questo per dimostrare che l’umanità è ancora interconnessa.

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