Una mattina della tarda primavera 1937, in un caffè di boulevard Saint-Germain, si incontrano Marcel Duchamp e Walter Benjamin: il primo mostra al secondo una delle sue speculazioni sulla ‘copia’, probabilmente il prototipo della collotipia colorata a pochoir del Nudo che scende le scale n. 2, uno dei pezzi per la Scatola in valigia. La copia in miniatura è «bella da togliere il respiro», annota Benjamin nel diario: dovrebbe «forse menzionarla» nel saggio – che lo ossessiona – L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, poi concluso nel marzo-aprile del ’39? Segue un frammento su Duchamp e il ready made, che tuttavia non avrà sviluppo nel fatidico scritto. «È evidente che l’opera e il pensiero di Duchamp avrebbero scosso e sovvertito molte argomentazioni labirintiche e metodicamente costruite esposte da Benjamin, e soprattutto quella dell’aura dell’opera d’arte…»: non si poteva chiudere più eloquentemente il saggio, analitico e penetrante, con cui Paul B. Franklin si conferma fra i più credibili studiosi duchampiani: Marcel Duchamp e la seduzione della copia (Marsilio «Arte», pp. 234, euro 49,00), anche catalogo della mostra relativa alla Peggy Guggenheim di Venezia (fino al 18 marzo), realizzato con cura tipografica degna del suo oggetto, a partire dalla copertina plastificata su cui stacca, nell’arancione, uno dei dodici Rotorilievi, Poisson japonais (pesce rosso).

L’omaggio ad Attilio Codognato

Franklin già si era misurato, tangenzialmente, con il problema ‘copia’ in occasione di Marcel Duchamp. La peinture, même, Centre Pompidou, 2014-’15. Il perimetro fiabesco che disegna oggi si articola (a parte il prologo e l’epilogo, aniconici) in otto voci, ciascuna corrispondente a una sezione della mostra. Sorprende l’adesione delle considerazioni saggistiche al percorso figurato. Un consistente numero di prestiti viene dalla collezione di Attilio Codognato: il gioielliere veneziano aveva cominciato a raccogliere opere di Duchamp, devotamente, negli anni settanta; è scomparso il 13 novembre e la mostra si è trasformata in un commosso omaggio.

L’intera opera di Duchamp è attraversata dal problema ‘copia’. Ma la copia, in Duchamp, subisce sempre uno slittamento, talché diventa ‘originale’. Proprio dove verrebbe certificata la scomparsa dell’aura, il trionfo incondizionato dell’anonimo e del seriale, viene a realizzarsi un rinverginamento, inoppugnabile perché, al contrario di qualsiasi tentativo soggettivo condotto in nome del mondo di ieri, necessariamente volontaristico, risponde perfettamente allo spirito dei tempi, che è, appunto, lo spirito della copia.
Il rifiuto radicale del retinico conduce Duchamp a interrogarsi sulle tecniche di riproduzione, a utilizzarle e a sfidarle.

Marcel Duchamp, “Poisson japonais”, disco n. 5 del set di dodici “Rotoreliefs (disques optiques)”, Parigi, collezione privata

Lo eccita l’idea di operare in un campo che interdice statutariamente il tocco d’artista. Lì solo gli sarà consentito di sfumare, colorare, con la mente e con il linguaggio. Allergico alla figura del professionista incatenato all’atelier ripetendo ad infinitum se stesso e aderente in automatico alle richieste del mercato, Duchamp dichiarò, a più riprese, di aver presto capito che non era questa la strada, rifiutando di sottomettersi «a formule stabilite, di copiare o essere influenzato». «Fortunatamente avevo abbastanza personalità per non essere un copista». Eppure… diventa copista per non essere copista. Solo un’«intelligenza allargata, distesa, estesa, gonfiata», sensibile come nessun’altra alla malìa della logica parallela, poteva intravedere una fessura così stretta, ‘complicare’ in tal modo la determinazione teorica di Benjamin.

Per evadere dalla condanna del gusto, Duchamp ricorse a diverse possibilità: il disegno meccanomorfo, il vetro, il ready made… Con quest’ultimo intuisce che è possibile interferire nell’ottusa sequenzialità della riproduzione industriale: trovando l’oggetto, che è copia inerte, ne fa una copia parlante. Su questa base egli innesta una serie di sofisticati accorgimenti tesi a modificarlo di un poco, e dunque a distinguerlo vieppiù: ready made ‘rettificato’, ‘aiutato’, ‘imitato’. Lo stesso titolo, la stessa firma, in quanto «colori verbali», rettificano. Per non ricadere nel vituperato gusto, nella ripetitività artistica, e ottenere la completa anestesia visiva, egli capisce che deve scegliere i pezzi di serie fra i più anòdini e, soprattutto, limitarne il numero, per farne una specie di famiglia, un luogo di somiglianze, determinate dalla sua particolare sensibilità. Nella contesa di fioretto fra espressione dell’io e inerzia dell’oggetto, Duchamp predilige le situazioni più ardue, dove il margine è ‘infrasottile’.
Cerchiamo di sciogliere le varie fattispecie mentali sul vivo dei lavori, a partire dalle sezioni enucleate da Franklin.

I fratelli, una traccia primaria

Può darsi, come osservò Pontus Hulten nel 1993 introducendo la mostra duchampiana di Palazzo Grassi (le deliziose Effemeridi zodiacali di Gough-Cooper e Caumont!), che si sia insistito indebitamente sulle relazioni familiari di Marcel: resta che se ne possono trarre indicatori non trascurabili leggendole non tanto in chiave psicoanalitica, o alchemica, ma come parte costitutiva dell’opera e dell’idea dell’opera.

La presenza del circolo familiare nei dipinti giovanili di Duchamp – prima sezione della mostra: «Origini, originali e somiglianze di famiglia» – non va considerata solo in senso didascalico (Magdeleine, la «sorellina» del dipinto giunto dal Guggenheim Museum di New York; i fratelli, Gaston e Raymond, protagonisti della serie sugli scacchi; Marcel stesso, «giovane triste in treno» mentre torna a casa da Parigi a Rouen), ma quale traccia primaria di quello spirito di somiglianza che giustificherà il «rapporto viscerale» nutrito da Marcel verso i propri lavori, da lui descritti «come una famiglia affiatata che condivide origini comuni, proprio come lui e i suoi fratelli» (Franklin). La preoccupazione di vedere il corpus delle sue opere conservato in un solo luogo – che poi sarà, in seguito al legato dei coniugi Arensberg e, per il Grande Vetro, di Katherine Dreier, il Philadelphia Museum of Art – indica a sua volta quest’idea familiare.

L’idea trova del resto una risonanza in quell’altro sacrario duchampiano che fu, fino alla demolizione a metà degli anni sessanta, l’atelier a Puteaux del fratello maggiore Gaston (Jacques Villon), dov’erano custodite, come spoglie, le sculture dell’altro fratello, morto in guerra, Raymond (Duchamp-Villon), e dove Marcel tornava regolarmente a ogni rientro parigino da New York.
La manifestazione più dichiarata del sentimento familiare verso il proprio lavoro è La scatola in valigia, il celebre museo portatile concepito da Duchamp nei primi mesi del 1935 e portato a termine alla fine del 1940: cuore pulsante della mostra, nella seconda sezione «Il passato è un prologo».

«Inventario intimo di trofei lillipuziani» (Franklin), «forma di autobiografia realizzata come uno spettacolo di marionette» (W. Arensberg), la Scatola in valigiada o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy – è un raccoglitore di riproduzioni meticolose e repliche tridimensionali in miniatura di sessantanove delle opere prodotte dall’anartista fino a quel momento. Dei ventiquattro esemplari dell’edizione deluxe, la Guggenheim Collection possiede il primo – acquistato da Peggy, e a lei dedicato, all’inizio del ’41 – , il cui complesso restauro, condotto a Firenze dall’Opificio delle Pietre Dure e documentato da un filmato a fine percorso, è stato l’occasione stessa della mostra.

L’antiquata e laboriosa collotipia

Il lavoro certosino della scatola è per Duchamp – Franklin lo sottolinea – una nuova diversione dall’arte e dal mercato dell’arte: egli si orienta verso «l’orbita più placida dell’editoria, della stampa, della catalogazione e dell’archiviazione, dove collabora con decine di artigiani…». L’ambiguità costituzionale a lui propria lo orienta verso un sistema di riproduzione, non neutro, rapido ed economico, come la litografia offset, ma antiquato, laborioso e costoso, la collotipia. Copiare non è un atto meccanico, ma un interrogativo e un esperimento.

Per ciascuna di trentadue copie in collotipia (su quarantanove) prepara un esemplare colorato a mano, che definisce coloriage original, «prototipi unici – né puri originali, né semplici copie – che affida ai laboratori di pochoir, dove gli artigiani… applicano diligentemente il pigmento a pennello…» (Franklin). Per essere eccezionalmente fedele, in un vasto spettro di toni, Duchamp riattiva… la pittura. Nell’esemplare destinato a Peggy, Marcel le fa omaggio del coloriage original (1937) de Il re e la regina circondati da nudi veloci, incollato all’interno del coperchio: «le lumeggiature in pigmento bianco applicate su varie aree dei nudi in movimento brillano leggermente» (Franklin). Il pezzo unico si aggiunge all’altro, stampato in collotipia, e in mostra abbiamo il privilegio di vederli riuniti all’opera originale, giunta da Filadelfia con le sue screpolature.

Marcel Duchamp con la “Boîte-en-valise” in casa Guggenheim a New York, agosto 1942: la foto uscì sul «Time» il 7 settembre ’42

Appare chiaro come il demone della copia stimoli il pensiero di Duchamp nella stagione in cui egli risulta inattivo al mondo dell’arte. Nel 1937 giunge a formulare l’‘infrasottile’: «Tutti gli “identici”, per quanto identici possano essere (e anzi più sono identici), si avvicinano a questa differenza dissociativa infrasottile». Scena primaria dell’infrasottile era stata, nel settembre 1934, la Scatola verde, su cui si incardina – terza sezione della mostra – «La magia del facsimile». Duchamp ha ripreso in mano le sue vecchie elucubrazioni in note manoscritte volanti intorno all’opus magnum, il Grande Vetro, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (1915-’23). Insieme a una serie di riproduzioni di opere e fotografie relative, intende riunirle e serializzarle. L’idea di una scatola come contenitore «letterario» l’aveva avuta vent’anni prima (Scatola 1914): ora la realizza con lo scopo di pubblicarla in venti esemplari deluxe e trecento ordinari, integrandola al Vetro – i testi avranno una divulgazione più ampia solo nel 1959 con la pubblicazione in Marchand du sel (a cura di Michel Sanouillet, Le Terrain Vague).

La riproduzione in facsimile, al modo poi utilizzato per la Scatola in valigia, e la musealizzazione in piccolo provocano finemente la dimensione aleatoria e chimerica del linguaggio, linguaggio che Duchamp aveva «contorto e convertito – secondo le parole di Franklin – in un nuovo tipo di poesia». Marcel desiderava, per la Scatola verde, un ruolo meramente funzionale, che «la si consultasse osservando il “Vetro”», perché essa «non andava considerata in senso estetico. L’abbinamento delle due cose annullava l’aspetto retinico, che io rifiutavo, del “Vetro”». Come conciliare questo reclamato grado zero della ricezione con l’impressione testimoniata da Hulten ricordando la sua prima volta con la Scatola verde?… «Un’esperienza travolgente. Talmente straordinaria che il giorno dopo dovevo tornare… per avere la conferma che non si era trattato di un sogno».

La quarta sezione della mostra, «Copie autentiche», si impernia sullo scandalo provocato fra i duchampiani accademici ma, evidentemente, non di stretta osservanza, dal contratto del 1964 fra Duchamp e Arturo Schwarz, che prevedeva la replica di dieci set di undici ready made storici, poi divenuti dodici. Allo sconcerto più o meno indignato Duchamp rispose con lo sberleffo. Come avrebbe potuto sottrarsi alla seduzione di ‘rinfrescare’ quegli oggetti, di cui aveva detto, nell’intervista di Richard Hamilton per la BBC, 1961, «l’unica cosa a cui sono veramente legato»?

Ma – la mossa del cavallo – sovrintende alle repliche Schwarz con ossessiva cura notarile (il padre!), trovando accorgimenti editoriali che ne garantiranno l’integrità e le terranno al riparo dalle malversazioni commerciali. Repliche blindate: egli le concepisce, vede bene Franklin, «dal punto di vista della scultura classica, in un capovolgimento assoluto dell’impianto intellettuale da cui erano nati i ready made storici». L’oggetto di serie cui il giovane Duchamp aveva dato vita in spregio all’autentico sembra dunque tornare nei ranghi, diventa scultura… La quale a sua volta, però, è una forma intermedia.

«A differenza dei pittori, gli scultori non sono costretti a creare opere uniche. Per loro gli originali possono essere multipli», terrà a precisare Marcel nel 1966, anno in cui realizza l’antico sogno del fratello perduto in guerra, lo scultore cubista Raymond: l’ingrandimento (un metro e cinquanta in altezza) del suo Cheval, che diventa così, bronzo a patina nera, Le Cheval majeur. Nel ragionare su questa copia in scala, con la dedizione amorevole dell’unico sopravvissuto fra i quattro artisti Duchamp (Jacques Villon, già responsabile del lascito di Raymond, era morto nel ’63: a giugno, tre mesi prima di Suzanne), Marcel colora il suo pensiero, nella stagione dei ready made Schwarz, di una nuova nuance infrasottile, dov’è riconsiderata la pratica tradizionale, con lo statuto relativo.

«Disciplinare e rendere più audace la mano», quinta sezione: Duchamp, da una parte trova nell’universo polivalente della copia personalissime possibilità di straniamento, dall’altra si concede piccoli intervalli di divertissement grafico-pittorico, perlopiù in favore degli amici.

La «Sposa», accanto a Jacques Villon

Di nuovo un vis-à-vis familiare è la meravigliosa acquatinta a colori della Sposa, realizzata nel 1934 accanto a Jacques Villon. Da più di dieci anni il fratello aîné sbarcava il lunario realizzando per Bernheim-Jeune una serie di riproduzioni da opere di maestri moderni, da Manet a Cézanne, da Picasso a Léger: gli ancora in vita firmavano poi le incisioni, tirate in duecento copie. La Sposa fu tra queste, e Duchamp, poco tempo prima di intraprendere la Scatola in valigia, ne approfittò per travestirsi da pittore, lavorando con Villon a mano libera nel determinare i colori a memoria, data l’inaccessibilità della tela originale, dai Levy a New York: in mostra, uno dei venti esemplari deluxe nei quali Marcel appose, stemmatico, un cavallino scacchistico in grafite.

«La scintillante pissotière di Anagramma per Pierre de Massot si erge come un faro nella notte parigina nera come la pece…»: il piccolo disegno a guazzo e grafite, 1961, che regalò allo scrittore francese, bisessuale, intrinseco agli ambienti dada e surrealisti, cui era legato dal ’21, è uno degli arguti giochi di ambivalenza ai quali Duchamp affidava le varie parti in commedia del suo sé. Franklin (già curatore dei testi duchampiani di de Massot, L’Échoppe, 2015), coopera acutamente all’individuazione di un’operina ‘da niente’, scintillante, sì, nel catalogo di Marcel, al pari di diversi altri piccoli lavori fatti sempre «con spirito antiartistico, alla vecchia maniera dada» (Man Ray). Eleganza e precisione della mano al servizio di un luogo della psiche vagamente allucinato: il giallo acido dell’urina, il fantasma degli adescamenti, e della Fontana, l’anagramma ‘a scarto’ «de Ma/ Pissotierre/ j’aperçois/ Pierre de Massot».

«Clonare il sé, vestire l’altro»: L.H.O.O.Q, Rrose Sélavy; «Ripetizione ipnotica»: Anémic Cinéma, Rotorilievi (dischi ottici); «Temi e variazioni»: Farmacia, Apolinère Enameled, Couverture-cigarettes: un’altra serie di case-histories, a finire, di un pensiero magico e diversivo che ha fatto della copia l’avventura del ventesimo secolo, prima della Formattazione. Ma non è vero che anche nel formattato avrebbe trovato la via d’uscita infrasottile?…