«No»: Draghi neppure aspetta che la domanda sia completa per negarsi a qualsiasi ipotesi di secondo giro a palazzo Chigi e deludere di brutta quelli che sulla sua candidatura non autorizzata avevano centrato l’intera campagna elettorale. Calenda e Renzi, da ieri orfani di candidato virtuale. Un bel guaio

NELLA CONFERENZA STAMPA di un addio privo di mestizia Draghi alterna carezze e scappellotti. Le carezze sono per i suoi ministri. Gli osanna per il titolare dell’Economia si sprecano, «Spero che chi governa abbia uno come lui», ma in generale è un diluvio di «bravissimi» e «straordinari». Va da sé che si parla di ministri per elogiare il governo tutto. Arrivato all’ultimo miglio Draghi rivendica pieno successo e s’imbufalisce se gli sciorinano di fronte guai e problemi, il voto mancato della Lega sulle concessioni balneari, la tentazione di rimaneggiare il Pnrr: «Non condivido questa visione sempre negativa. Il Pnrr non funziona?

Invece funziona. C’è quello che parla di nascosto con i russi? Va bene, c’è pure lui ma la maggioranza non lo fa». E ancora: «Per me questo è un Paese forte, leale a Nato e Ue, che cresce e ha ridotto l’indebitamento». Oltre ai suoi ministri e al suo governo, il premier elogia soprattutto il Paese, con un altro scatto d’insofferenza: «La nostra democrazia è forte. Non si fa abbattere da nemici esterni e pupazzi prezzolati».

LE TIRATE D’ORECCHIO, a volte qualcosa di peggio, sono per i partiti. Con la Lega stavolta il premier ha davvero il dente avvelenato. Non per i civettamenti con Putin, che in tutta evidenza tende a minimizzare e specifica che nel famigerato report Usa sui finanziamenti russi di partiti italiani impegnati nella contesa elettorale non ce n’è nemmeno uno, come riferito da Gabrielli al Copasir. Quello che lo manda fuori dai gangheri è la delega fiscale: «C’era un accordo per votarla il 7 settembre con l’impegno del governo a non scrivere i decreti delegati prima delle elezioni. Il governo ha mantenuto la parola, una forza politica no».

È la Lega ma il premier non si è arreso. Fa sapere di essere d’accordo con la presidente del Senato per provare di nuovo a calendarizzare e, in caso di dissensi tra i capigruppo, per portare il calendario in aula. È una forzatura grossa. In cambio della delega FdI e Lega chiedono l’equo compenso, i 5S l’ergastolo ostativo. Già una legge delega approvata da camere cadaveri sarebbe fuori dalla norma, pur se regolare. Aggiungere quasi un programma di governo diventerebbe clamoroso.

BACCHETTATE ANCHE per l’alleanza di Meloni e Salvini con Orbán, certificata nell’aula di Strasburgo. Ma qui il premier scarta rispetto al coro: «Ci si scelgono i partner rispetto alla comunanza ideologica ma anche all’interesse degli italiani. Chi conta di più?». Più che una reprimenda è un consiglio: tra Bruxelles e Budapest non si possono nutrire dubbi. Questione di convenienza se non di valori.

LA FRECCIATA per Conte arriva alla fine. È lui uno di quelli che «si inorgogliscono per la controffensiva ucraina, ma come pensavano che gli ucraini dovessero difendersi nella guerra di liberazione? A mani nude?». Infine, visto che non glielo chiede nessuno, il capitolo Amco (l’operazione dei crediti deteriorati) lo tira fuori lui stesso e chiede a Franco di illustrare con dovizia di dettagli perché tutte le accuse di star minando i conti pubblici siano destituite di fondamento. A muoverle non era stato uno qualsiasi ma l’ex dominus dell’economia italiana e candidato FdI Tremonti.

SPARGE OTTIMISMO il premier arrivato al capolinea. Certo, «se tutto il mondo va in recessione ci andiamo anche noi» ma l’importante è fare comunque un po’ o molto meglio degli altri. Gli estremi per proseguire sul percorso vincente tracciato dal suo governo ci sono. I fondi per i nuovi aiuti a dicembre sono già certi, il rigassificatore di Piombino sarà essenziale, la crescita, purché il prossimo governo sappia creare «l’ambiente favorevole», farà il resto.

Cingolani dà man forte: si aspetta il Price Cap europeo sul gas non solo russo già il 30 settembre, è certissimo che sul rigassificatore l’intesa si troverà, il disaccoppiamento del prezzo dell’elettricità e del gas è già allo start da noi e la Ue arriverà presto. Ma il limite di questa visione rosea è palese. Draghi, come sempre, conta sul “pilota automatico”, la strada già tracciata: «Da rivedere nel Pnrr è rimasto ben poco». Ma una cosa è il suo governo tecnico, nel quale i politici contavano zero. Per un governo politico proseguire su quel sentiero non sarà affatto facile.