Dov’è il padiglione francese?
ARCHITETTURA Riflessioni intorno alla dialettica - sempre aperta - fra proposte nazionali ed esposizione internazionale. Biennale, la centralità della mostra curatoriale arriva con l’iperpoliticizzazione dell’arte anni ’60. Nell’edizione di Lesley Lokko, i padiglioni si distinguono per la ormai ricorrente tendenza all’autodistruzione edilizia, come un bisogno profondo di creare brecce nei confini fisici e identitari. Nel 1973, alla fine di un quinquennio di «contestazione», ha un nuovo statuto che ingloba nel consiglio direttivo enti locali, università e sindacati. Nasce il «tema»
ARCHITETTURA Riflessioni intorno alla dialettica - sempre aperta - fra proposte nazionali ed esposizione internazionale. Biennale, la centralità della mostra curatoriale arriva con l’iperpoliticizzazione dell’arte anni ’60. Nell’edizione di Lesley Lokko, i padiglioni si distinguono per la ormai ricorrente tendenza all’autodistruzione edilizia, come un bisogno profondo di creare brecce nei confini fisici e identitari. Nel 1973, alla fine di un quinquennio di «contestazione», ha un nuovo statuto che ingloba nel consiglio direttivo enti locali, università e sindacati. Nasce il «tema»
Con l’arrivo dei mesi più caldi l’atmosfera alla Biennale di Venezia si fa lievemente più rarefatta. Gli addetti ai lavori si disperdono in vacanze più o meno esotiche e la folla internazional-popolare che invade quotidianamente la laguna si mostra più interessata a vagare in comitiva per le calli e a una limitata selezione di monumenti da selfie più che alle elucubrazioni di artisti e architetti contemporanei. L’«ingorgo» dei cultori riprende poi in settembre.
A poco più di un mese dall’apertura, insomma, la Biennale diventa un posto un po’ più tranquillo per qualche considerazione che vada oltre le sintesi necessarie al genere «recensione» (peraltro brillantemente pubblicata da Maurizio Giufré su questo giornale il 20 maggio scorso).
IL PRIMO TEMA su cui sarebbe interessante soffermarsi è il diverso approccio che hanno alle mostre i visitatori italiani e quelli internazionali. Gli italiani vanno prima di tutto a vedere le due sezioni della mostra del curatore (in questo caso Lesley Lokko) e il nostro padiglione nazionale mentre il pubblico internazionale sbarca in laguna con in testa soprattutto l’impazienza di vedere il proprio padiglione nazionale e confrontarlo con gli altri. L’esposizione del curatore viene dopo. Questo si riflette in una certa tendenza all’incomprensione.
Di questa interessante dialettica tra padiglioni nazionali e mostra internazionale parla Paolo Baratta (ex-presidente) nel suo libro-memoriale sulla Biennale, Il Giardino e l’Arsenale (Marsilio 2021). L’impressione è che fino agli anni sessanta il focus maggiore della mostra fosse appunto nel considerare la Biennale come l’occasione per il confronto tra i vari padiglioni nazionali. E, quindi, tra i vari movimenti artistici locali. L’obiettivo – scrive Baratta – era «dimostrare che l’Italia aveva ormai acquisito una primazia in campo artistico tra i paesi occidentali, e che aveva sostanzialmente neutralizzato la supremazia francese». Ciononostante, per quanti sforzi autarchici si facessero, «la maggior parte dei visitatori, varcata la soglia, allo stacco dei biglietti domandava: dov’è il padiglione francese?». Dal dopoguerra agli anni sessanta la mostra diventa l’occasione per la nobile gara tra le molte avanguardie, ospitate (o a volte brutalmente escluse) dai propri padiglioni.
L’IMPRESSIONE è che la svolta – in favore della centralità della mostra internazionale – arrivi con l’iperpoliticizzazione dell’arte degli anni ’60 e con la parallela grande vitalità dell’arte italiana, che a quel punto si rende conto di non avere bisogno di uno spazio istituzionalmente riservato per essere presente e ben rappresentata. Nel 1973, alla fine di un quinquennio di «contestazione», la Biennale ha un nuovo statuto che ingloba nel consiglio direttivo enti locali, università e sindacati, mentre le mostre cominciano ad avere un tema. Dall’edizione del 1976 Celant, Bonito Oliva, Crispolti, Szeemann introducono alla Biennale una concezione dell’arte intrinsecamente legata a temi politici e spaziali, non a caso includendo per la prima volta delle mostre di architettura. Il centro dell’attenzione, insomma, non sono più i padiglioni nazionali ma la mostra internazionale, con un direttore che dura quattro anni e una serie diversificata di eventi e curatori.
L’ATTIVITÀ DEI PADIGLIONI dei singoli paesi diventa più un’appendice del dibattito e delle ricerche condotte localmente, con l’aggiunta dell’attivismo di ambasciate, addetti culturali, consolati, e con la peculiare eccezione degli americani che forse grazie al protagonismo di Peggy Guggenheim si convincono che la rilevanza artistica e architettonica della Biennale (se non di Venezia in toto) sia soprattutto affar loro.
Il 30 maggio di quest’anno, solo un paio di settimane dopo l’inaugurazione della biennale di Architettura, è morto Paolo Portoghesi. L’impatto di Portoghesi sulla Biennale e sull’argomento in questione è stato enorme. Nel 1980 ha diretto e curato la prima edizione dedicata all’Architettura, La presenza del passato, consolidando il ruolo di Venezia come centro della ricerca architettonico del suo tempo. Ha ingigantito l’importanza della Biennale sulla scena mondiale e ampliato anche fisicamente la prevalenza della mostra internazionale nei confronti dei singoli padiglioni, allargando lo spazio espositivo ai quattrocento metri della navata delle Corderie dell’Arsenale (circa 7000 mq). In generale, si può dire che dal 1980 fino a poche edizioni fa la Biennale è soprattutto la rassegna del curatore (a metà degli anni ’90 si è passati dai direttori di sezione in carica quattro anni ai curatori delle singole mostre). Seguendo un processo allora inarrestabile di internazionalizzazione e globalizzazione, già insito nella natura stessa dell’arte moderna e contemporanea il cui campo d’azione principale è ovviamente quello non legato alle identità nazionali.
SORPRENDENTEMENTE, colui che restituisce ai padiglioni l’importanza perduta è il più autorevole e autoriale dei curatori incaricati, vale a dire Rem Koolhaas, nel 2014. Nelle edizioni precedenti la fedeltà dei progetti curatoriali dei singoli padiglioni al tema proposto dal curatore della mostra internazionale era sempre stato considerato un vincolo molto labile. In molti casi i responsabili nazionali venivano nominati anche prima di quello generale; in molti altri i paesi avevano contenuti e aspirazioni distanti da quelle della mostra ospitata nel padiglione ai Giardini (nel frattempo rinominato da «Italia» a «Centrale») e all’Arsenale. Koolhaas impone alcune interessanti novità. Prima di tutto chiede che la mostra di architettura abbia lo stesso periodo di apertura di quella di arte (e non più il breve arco settembre-novembre).
Quindi spezza in due la mostra del curatore, riservando a se stesso solo il Padiglione Centrale e «regalando» le Corderie a una ampia ricerca sull’Italia (Monditalia). Poi chiama a raccolta i singoli curatori e chiede loro di seguire più fedelmente la traccia da lui scelta per le partecipazioni nazionali, Absorbing Modernity 1914-2014. Il risultato è una biennale di inedita coerenza, nella quale le incursioni storiografiche dei singoli padiglioni servono anche a compensare una certa riluttanza del super-curatore nell’esporre progetti di architettura tradizionalmente intesi nei suoi Elements.
La Biennale di Koolhaas rappresenta anche un’altra svolta importante, questa volta nella natura del pubblico che la frequenta. La 14/a Biennale, soprattutto se si guarda ai padiglioni nazionali, sembra infatti l’occasione buona per certificare il consolidamento della nuova figura del curatore nel mondo dell’architettura. Dove per curatore non si intende l’intellettuale/architetto/critico prestato all’ideazione di una mostra – com’era per Portoghesi, Koolhaas e quasi tutti i curatori delle Biennali di architettura – ma piuttosto una figura professionale autonoma e in espansione, alla quale si cercherà di trovare lavoro presso la crescente costellazione globale di istituzioni ed eventi incentrati sull’architettura.
La mostra curata quest’anno da Lesley Lokko, nonostante la sua occupazione principale sia quella di scrittrice, appartiene certamente a questo genere. Lo si notava dalla tipologia di pubblico che affollava i giorni inaugurali, fatto appunto da curatori, critici, attivisti e cultural operators piuttosto che da architetti praticanti. Si va alla Biennale non più per apprendere le novità progettuali (che ormai tutti conoscono prima e che non hanno più bisogno di quella vetrina) ma per discutere i temi e le issues proposti dalla curatrice e raccolte dai responsabili dei padiglioni nazionali. Temi e issues che Lokko ha correttamente allineato alle urgenze dei nostri temi e alla sua stessa identità geo-politica – ecologia, decolonizzazione, diaspora, «artivism» – e che forse meriterebbero un impegno ancora maggiore – e più operativo – di quello che si riesce a fare in una mostra.
TORNANDO ai padiglioni e alla loro rinnovata centralità in un’edizione così legata alla geo-politica e alla storia, vale forse la pena segnalare tra gli episodi rilevanti una strana e ormai ricorrente tendenza all’autodistruzione edilizia, come un bisogno profondo di creare brecce nei propri confini fisici e identitari per accogliere un mondo più complesso e inclusivo.
Molti si sono infatti concentrati sulla possibilità di demolire, aprire, tagliare muri, richiudere e via dicendo. I tedeschi hanno ripreso il filo dell’ultima biennale d’arte e si sono applicati all’analisi eco-energetica delle macerie del proprio padiglione; gli austriaci hanno ingenuamente irritato tutta la controcultura veneziana proponendo (invano) di realizzare una breccia nel muro di confine dei Giardini (come se nessuno ci avesse mai pensato); gli israeliani hanno sigillato ermeticamente il loro padiglione; gli svizzeri – come spesso accade alla Biennale – hanno fatto un piccolo capolavoro eliminando il confine che separa il loro padiglione, realizzato dal fratello di Giacometti, da quello del Venezuela, progettato da Carlo Scarpa e oggi tormentato sia dal degrado architettonico che dalla situazione politica del paese sudamericano.
Manca inevitabilmente, in una Biennale così postcolonial (ma insediata in una geografia di spazi fisici ancora molto legati all’epoca coloniale), una presenza più massiccia di rappresentanze nazionali provenienti dall’Africa. Speriamo però sia uno stimolo efficace per un futuro non troppo remoto.
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