Editoriale

Dov’è cominciata la grande frana

Riforme L’approvazione della nuova legge elettorale, per gli effetti di lungo periodo che è lecito attendersi, introduce un elemento di profonda rottura nel sistema politico e nello spirito costituzionale del Paese. […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 5 maggio 2015

L’approvazione della nuova legge elettorale, per gli effetti di lungo periodo che è lecito attendersi, introduce un elemento di profonda rottura nel sistema politico e nello spirito costituzionale del Paese. C’è del resto un ben individuabile parallelismo tra i colpi inferti negli ultimi vent’anni alla Carta repubblicana, ed il periodico varo di leggi elettorali maggioritarie (i costituenti non istituzionalizzarono il sistema proporzionale solo perché dato per implicito). Si dovrà riflettere sul quadro di insieme all’interno del quale ha potuto prodursi una simile frana.

La costituzione del ’47, ed i valori che la sostenevano e che l’hanno rinvigorita, per quasi mezzo secolo hanno camminato sulle gambe dei grandi partiti di massa. Lo scoppio della guerra fredda da un lato, e la presenza sul tappeto di una questione sociale esplosiva e non governata da un altro, introdussero da subito forti elementi di criticità nel sistema politico sorto dalla grande vittoria antifascista. Ma il quadro d’insieme, tra innegabili tensioni e torsioni, fu ricomposto senza scivolare in avventure autoritarie – nonostante forze mai del tutto sopite tornassero periodicamente a premere in quella direzione; mentre la pressione dal basso delle masse popolari, inquadrate nelle strutture politico-sindacali del movimento operaio, permetteva la progressiva conquista di spazi di democrazia sociale e un robusto ri-equilibrio dei rapporti tra interessi collettivi e mercato.

Una simile strutturazione della lotta politica ha favorito e accompagnato un graduale ma continuo innalzamento della condizione non solo materiale delle classi subalterne. Ed ha promosso un ingente processo di sostituzione delle élites tradizionali, con numerosi esponenti di estrazione popolare che hanno saputo farsi classe dirigente. Una rottura di portata epocale rispetto alla precedente storia dell’Italia unitaria, il cui merito va ascritto alla grandiosa operazione politico-organizzativa del “partito nuovo” togliattiano, senza peraltro ignorare il contributo portato in questo senso dal Psi e dalla stessa Dc.

Già nel corso degli anni Ottanta questa vicenda di reiterate conquiste progressive e popolari andò incontro ai primi arretramenti. L’evento destinato a fare da spartiacque fu, con ogni probabilità, il referendum sulla scala mobile: la storia degli ultimi trent’anni è la storia del progressivo affermarsi dell’egemonia del blocco storico che si rinsaldò nel corso di quella campagna referendaria; e del parallelo sfarinarsi del fronte popolare che allora gli si contrappose. Seguì la fine della guerra fredda, accompagnata, invece che dalla caduta del “vincolo esterno” ancorato alla vecchia divisione del mondo in blocchi contrapposti, dalla sua assolutizzazione, con l’acritica adesione ai postulati economico-ideologici di Maastricht.

In concomitanza di un drastico processo di smantellamento della democrazia sociale, le classi subalterne sono state espulse dalla rappresentanza politica diretta. Sulla crisi dei partiti si è così innestato un neo-notabilato interessato all’esclusiva auto-preservazione.

Nel frattempo la politica perdeva ogni residua autonomia da centri di potere classisti e democraticamente irresponsabili. Lo scontro si è così ridotto a sottofondo rissoso di processi decisionali spostati in un altrove spaziale e sostanziale: il «mercato» – formula oggettivante che nasconde precisi assetti di potere – è giunto ad innestare «il pilota automatico» (Mario Draghi).

Il gioco partitico è stato parallelamente assorbito all’interno del recinto neo-centrista e trasformista. Alla battaglia ideale e sociale tra interessi e valori contrapposti si è sostituita una guerra per bande, tra formazioni clientelari che tutto debbono alla volontà del leader di turno per prosperare e contendersi i cascami della crisi dello Stato repubblicano. Le classi subalterne hanno subito il progressivo sfarinamento organizzativo ed ideale del blocco sociale faticosamente forgiato nel fuoco di aspre lotte, con una capacità di reazione via via comprensibilmente venuta meno. Un ceto medio storicamente poco interessato agli sviluppi virtuosi della democrazia del Paese, ed assuefatto a vivacchiare negli anfratti clientelari, ha fornito un lievito di massa al gonfiare del nuovo senso comune, solo increspato in superficie dai proclami di una società civile illuminata, o presunta tale.

Come poteva reggere, in questo panorama, un sistema costituzionale, politico e valoriale affermatosi in un contesto tanto differente? Opporsi allo sfascio attuale con le sole armi del ricordo dei bei tempi andati o con la riproposizione di uno schema logorato da anni di sconfitte, lo si è visto, porta a poco. Il compito sul terreno è pertanto immane, giacché non si tratta di contrastare una singola misura o un singolo governo. Urge un lavoro più radicale di ri-definizione del terreno stesso dell’agire politico. Sul doppio versante di una «rideterminazione dei rapporti tra democrazia nazionale e poteri economici sovranazionali» (Fassina), e di una ricomposizione virtuosa del binomio democrazia/conflitto.

Dall’America latina all’Europa mediterranea, è in auge un ampio movimento politico e culturale che su questa duplice ipotesi di ricostruzione dello Stato-nazione – come spazio dell’agibilità democratica e come elemento di rottura degli assetti di potere finanzcapitalistici – sta costruendo le proprie fortune. Le forze popolari italiani non possono perder l’occasione di dare il proprio contributo.

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