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Douglas Sirk, magnifica ossessione

Douglas Sirk, magnifica ossessione

Locarno 75 Al festival svizzero una retrospettiva dedicata al grande regista tedesco (nato Hans Detlef Sierck) e al suo lascito artistico

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 30 luglio 2022

È bello che a poco tempo dal quarantesimo anniversario della morte di Rainer Werner Fassbinder, di cui abbiamo parlato di recente su queste pagine, venga un omaggio dedicato al suo indiscusso maestro e cioè ad un altro gigante del cinema del secolo scorso. Ci riferiamo all’imminente Retrospettiva del Festival di Locarno, per la cura di Bernard Eisenschitz e Roberto Turigliatto, a Detlef Sierck alias Douglas Sirk (1897 – 1987), giusto nei 35 anni dalla sua scomparsa, a quello, cioè, che è stato il re indiscusso del melò flamboyant degli anni Cinquanta, il protagonista di due (o meglio tre) carriere tra la Germania e Hollywood.

Ma andiamo per ordine: nato ad Amburgo da genitori d’origine danese, Hans Detlef Sierck frequenta corsi di legge ma anche di filosofia e arte, dove per altro venne influenzato dall’insegnamento del celebre storico dell’arte Erwin Panofsky. Negli anni della Repubblica di Weimar, poi, inizia una brillante carriera di regista teatrale, prima a Brema successivamente a Lipsia – un’esperienza che si rivelerà fondamentale nel suo successivo lavoro. E ciò accade nel 1934 quando viene ingaggiato dall’UFA, la grande Major del cinema tedesco classico, che si trovava a corto di personale artistico dopo la grande e precipitosa fuga di registi, attori e tecnici di origine ebraica seguita all’ascesa al potere di Adolf Hitler nel 1933.

Personalità colta ma anche in grado di capire le esigenze popolari e spettacolari del cinema, Sierck realizza lì, nel giro di un paio d’anni, sette film e tre cortometraggi svariando nei generi: dalla commedia April, April (1934) a drammi nordici tipo Das Mädchen vom Moorhof (1935 da una novella della scrittrice svedese Selma Lagerlöf) o Stützen der Gesellschaft (1935, da Henrik Ibsen). Ma è quando si emancipa dalla stretta matrice teatral-letteraria per esplorare terreni più pop, che raggiunge i suoi risultati più felici e originali: così in La nona sinfonia, con cui vince la Coppa per il miglior film musicale alla Biennale di Venezia del 1936, ma soprattutto in due efficaci melodrammi esotici non scevri da influenze dell’ideologia nazista, interpretati dalla cantante-attrice svedese Zarah Leander che aveva sostituito nella Germania hitleriana Marlene Dietrich emigrata in America. Parliamo di La prigioniera di Sydney (1937) e di Habanera (1937), che si chiude con la dipartita della protagonista dalla sua terra adottiva per rientrare in Germania.

E paradossalmente la prima carriera di Sierck termina con la sua fuga nel 1937 mentre nelle sale si proiettava proprio quel film. Avendo sposato in seconde nozze l’attrice di origini ebraiche Hilde Jary, malgrado il successo, Sierck poteva sempre essere colpito dalle leggi razziali e sembra che proprio le denunzie della prima moglie, Lydia Brincken, lo avessero spinto al passo di espatriare il prima possibile appena riavuto il passaporto – ironia della sorte: proprio dalla Bricken aveva ricevuto un figlio, Klaus Detlef Sierck, poi diventato un attore bambino che morirà in guerra combattendo in Ucraina nel 1944.
Comunque, già in questa prima fase di lavoro, Sierck aveva messo a punto alcuni degli aspetti che poi diventeranno la chiava di volta della sua successiva carriera a Hollywood: oltre alla gran cura nella direzione degli attori derivatagli dal teatro e all’amore per l’orchestrazione musicale delle immagini, c’è da notare la predilezione per personaggi ambigui e contraddittori, insieme ad uno sguardo velatamente critico, ironico e anticonformista nei confronti della società.

Dopo alcune fugaci tappe in alcuni paesi europei, dal 1940 si trasferisce negli Stati Uniti, anglicizzando il suo nome in Douglas Sirk, dove – al pari dei tanti emigranti antifascisti – avrà difficoltà ad inserirsi prima di poter riprendere il lavoro.

Il suo primo film americano è un’opera antinazista, a low-budget, Hitler’s madman (1943), poi dirige un film d’ascendenza letteraria Temporale d’estate (1944, da una novella di Anton P. Cechov) e ancora una commedia molto riuscita – uno dei film che lo stesso Sirk predilige – basata sul personaggio dell’ispettore e avventuriero francese Eugène-François Vidocq in Uno scandalo a Parigi (1946). Seguono tre noir tra cui Fiori nel fango (1949, su sceneggiatura di Samuel Fuller) e una commedia musicale Amanti crudeli (1949) prima di iniziare a lavorare stabilmente per la Universal. Lì sperimenta, con alterne fortune, ogni genere cinematografico possibile: dalla commedia al western, dal film di guerra al dramma religioso, dal peplum all’avventura. Ma è soprattutto, come in Germania negli anni Trenta, ad eccellere nel melodramma grazie anche ad un team che sotto la guida del produttore Ross Hunter si componeva del direttore della fotografia Russell Metty, del consulente per il colore William Fritzsche e del musicista Frank Skinner oltre ad attori come Rock Hudson (con cui girò ben otto film), John Gavin o Lana Turner.

Si tratta il più delle volte di remake a colori fiammeggianti dei film in bianco e nero diretti da John M. Stahl negli anni Trenta – in essi affina una sottile critica alla società e alla provincia americana, ed esibisce il suo peculiare stile di regia. L’ossessione per gli specchi – per Sirk a partire dal mito greco di Narciso la prima occasione dell’uomo di riconoscere se stesso – l’uso della profondità di campo per creare curiosità nello spettatore, il sondare e privilegiare personaggi ambigui e bipolari, la musicalità dell’immagine, intrecci passionali estremi, sono i principali ingredienti di questi celebri melodrammi di grande successo, a partire dalla prima pietra miliare costituita da La magnifica ossessione (1954). Sulla base di questo spartito a forti tinte – in cui si mischiano rapporti familiari e d’amore, morte, malattia, sacrificio, ecc. – sono seguite le sue opere più note che, seguendo e variando gli stessi ingredienti, lo hanno reso, come si accennava, il maestro indiscusso del melodramma degli anni Cinquanta: Secondo amore (1955), Come le foglie al vento (1956), Il trapezio della vita (1957, dal romanzo di William Faulkner), Tempo di vivere (1958 dall’omonimo romanzo di Eric Maria Remarque e film tanto amato da Jean-Luc Godard) e infine il sommo Lo specchio della vita (1959).

Poi colpo di scena: al culmine del successo – e non come tanti suoi altri colleghi tedeschi emigrati ad Hollywood, ad esempio Fritz Lang o Robert Siodmak, in un periodo ormai di stanca – Sirk decide di ritirarsi dal cinema per rientrare in Europa, e andare a vivere sul Lago di Lugano (ed è quindi abbastanza ovvio che il Festival di Locarno gli voglia dedicare una retrospettiva).

Segue un breve momento di oblio che però viene interrotto dalla riscoperta del suo cinema quando contemporaneamente nel 1971 esce il bel libro-intervista di John Halliday (adesso pubblicato anche in italiano dal Saggiatore, Milano 2022) e un celebre saggio/peana di Rainer Werner Fassbinder Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk (ora in Rainer Werner Fassbinder, I film liberano la testa, Ubulibri Milano 1988). È l’inizio di una terza carriera del regista amburghese che per altro realizzerà ancora tre cortometraggi, tra il 1975 e il 1978, con i suoi allievi alla Scuola di cinema di Monaco dove insegnava.

L’aspetto forse più rilevante di tale riscoperta sta nella grande influenza che il cinema di Sirk ha avuto sulla modernità a partire da quella ben nota sul melodramma critico di Rainer Werner Fassbinder che ha realizzato per lo meno due remake di film sirkiani: uno, diretto, a partire da Secondo amore in La paura mangia l’anima (1973) e l’altro più sfumato da Tempo di vivere in Il matrimonio di Maria Braun (1979).
Sarebbe impossibile esaminare qui in dettaglio come il regista bavarese abbia costruito il suo melò critico sull’esempio del maestro tedesco-hollywoodiano ma un paragone ravvicinato tra le loro opere illustra, in modo quasi paradigmatico, due differenti stadi del genere melodrammatico nello storico passaggio tra il cinema classico e quello moderno. E ciò non vale soltanto per quanto riguarda l’attività di RWF che si è sempre dichiarato un allievo di Sirk, ma si può ritrovare anche in altri importanti registi contemporanei, che hanno fatto tesoro del suo insegnamento. Per esempio, Pedro Almodovar nell’uso del colore di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) oppure nell’esplicito calco sirkiano di Lontano dal paradiso (2002) scritto e diretto da Todd Haynes che non a caso viene ripresentato anche nella Retrospettiva locarnese. E poi tanti altri tra cui – non poteva ovviamente mancare – il supercinefilo Quentin Tarantino. Per chi può, quindi, un soggiorno al Festival di Locarno per gustare il cinema di Douglas Sirk è altamente raccomandato. Vedere per credere

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