Creare una relazione fra i capolavori del seicento olandese della collezione del Centraal Museum di Utrecht e i masterpieces di videoarte della collezione Kramlich, per la prima volta presenti in Europa. Questo l’intento di Double Act (Centraal Museum, Utrecht, fino al 15 gennaio 2023) mostra voluta da Bart Rutten, direttore del museo che ha qui proposto singolari colloqui fra, per esempio, Hendrick ter Brugghen, Bill Viola e Richard Moss, Ambrosius Bosschaert il Giovane e Steve Mac Queen, Gerrit van Honthorst e Marina Abramovic o Hendrick Bloemaert e Pipilotti Rist.

Accostamenti azzardati e rischiosi nei quali il canone seicentesco fronteggia l’ultracontemporaneo e sull’immagine fissa, in un certo senso rasserenante – di una tela dipinta per esempio –, si riflette il flusso continuo di immagini in movimento. Ne scaturiscono riflessioni generali, profonde ma anche liberamente affidate al visitatore, su cosa voglia dire essere «umani» adesso ed esserlo stati allora.

Arrivate direttamente dalla loro splendida tana nella Napa Valley (Herzog & de Meuron per i Kramlich hanno creato soffitti con più strati in fibra di vetro e intonaco acustico che permette alle opere di essere fruite al meglio: Matthew Barney, Nam June Paik, Fischli e Weiss, Mariko Mori, Bill Viola fra gli altri), le grandi installazioni video entrano al Centraal Museum decontestualizzate e ricontestualizzate in modo del tutto nuovo. Musica e suono in Returning a sound (2004): Allora e Calzadilla filmano l’attivista Homer che percorre su una moto le strade di Vieques, isola e comune di Porto Rico, appena demilitarizzata dopo essere stata usata dal 1941 al 2003 come campo di bomb-testing dagli Usa. Sulla marmitta è applicata una tromba che, amplificando i suoni delle salite e delle discese, somiglia al freejazz oppure ad un’ambulanza e comunque ricorda talvolta il rumore assordante delle bombe. Da sopra, lo sguardo protettivo di un Suonatore di arpa da bocca di Dirck van Baburen (1622) e la calma e nobile scena di Concerto di Jan Gerritsz van Bronckhorst (1646).

 

Steve McQueen per «Double Act», accanto a un dipinto di Roelant Saverij

Un bellissimo Marte dormiente di Hendrick ter Brugghen (1629) è assopito nell’attesa della battaglia, la mano tiene stretta comunque l’elsa della spada e c’è tensione: un’attesa della violenza vicina al senso di sospensione creato da Richard Moss. Girato nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (Kivu del Nord e del Sud, miniere di coltan e cinque milioni di morti per guerra civile dal 1998 ad oggi) utilizzando una vecchia pellicola a infrarossi (Kodak Aerochrome), durante un reportage durato tre anni, The enclave (2012-2013) trasforma la clorofilla delle grandi foreste pluviali in una grande macchia fucsia. Il dislocamento senza sosta della popolazione disperata, il funerale di un bambino ma anche improvvisati concorsi di bellezza, il pasto comunitario di fufu consumato su una grande foglia verde (rosa) e un elefante che, lontano, attraversa la strada bombardata: ci si siede per terra ipnotizzati dal profluvio di colore e dallo scorrere in contemporanea dei video sui giganteschi otto schermi. E sì, ti fermi a lungo a guardarli col fiato sospeso.

È un po’ come entrare e stare dentro a una abat-jour per bambini, di quelle rotanti con la luce che filtra, la dimensione uterina di Expecting (2001). Pipilotti Rist proietta sul gigante labirinto di pizzo e patchwork immagini che si deformano sui teli e le proiezioni, o ciò che di esse resta trapassando le trine, sbattono contro i torsi antichi del Centraal Museum. Le immagini – la faccia soffocata e spiaccicata come in un acquario di Open My Glade (Flatten) che si vide su uno degli enormi schermi a Times Square (2017) o lei nuda e crocifissa che corre in un prato o la combustione filmata della Madonna con bambino e ramo di rose di Jan van Scorel (1635) – si espandono e si perdono nelle pieghe dei grandi teli. La cantilena dolce e ripetitiva – tipo ninna nanna ipnotica – scorre e porta ai risvolti oscuri di questa (e di ogni) maternità. Noi le guardiamo dentro (e ci guardiamo dentro). Rist questo vuole: che le frughiamo nella borsa (Holy, holy holy bag, St Gallen, 1989) così da capirla meglio e conoscerne i segreti. Le proiezioni, qui sui pizzi ma in passato su grandi bolle di fumo, su volte a croce di cappelle o sul soffitto di una chiesa (a Venezia a San Stae nel 2003) sono sostanze volatili che si infilano ovunque, un liquido amniotico confortante e disturbante.

Ci si cammina in mezzo sentendo che nell’aria è diffusa un’essenza alla menta (Peppermint Oil come Pepperminta, film del 2009 e come Pippi Calzelunghe, sua icona ispiratrice) che, in ogni caso, protegge dagli spiriti maligni, fa sapere Pipilotti, che, sorridendo (ma non poi così tanto) aggiunge: «È comunque tutti veniamo da quella parte del corpo, in mezzo alle gambe di nostra madre». E poi ancora l’ultraconosciuto ma sempre emozionante The crossing di Bill Viola (1996) e Marina Abramovic che si pettina fino a sentir male in Art must be beautiful, artist must be beautiful, performance del 1975.
Accanto a lei una piccola quadreria seicentesca con ritratti di donne (Gerard van Honthorst con La mezzana, 1625, e Paulus Moreelse, Venere con colomba, 1628): compiacenti, belle, sensuali e ingenue, invitanti ed insomma adatte e perfette per lo sguardo maschile proprio come non è Abramovich. Steve Mc Queen infine con Lynching tree (2013), ritrae, dentro una lightbox, un grande albero in una radura lussureggiante. Sembra la gigantesca magnolia di fronte alla quale, in Django Unchained, tutti, su ordine di Calvin Candy/Di Caprio si fermano: il vecchio e fedele schiavo/ mandingo che non può più lottare è gettato in pasto ai cani proprio ai piedi di un albero così.

Animali elegantissimi, immobili e straordinariamente ritratti mentre ascoltano l’arpa di Orfeo sono quieti, lì accanto, nel meraviglioso Orfeo e gli animali, dipinto da Roelant Saverij intorno al 1630. Ascoltano e guardano, in assenza di giudizio ma sembra anche con angosciante premonizione.