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Dostoevskij, a ogni carattere la sua maschera verbale

Dostoevskij, a ogni carattere la sua maschera verbaleUna scena dai «I fratelli Karamazov» nell’adattamento diretto da Lev Dodin per il Maly Drama Theatre di San Pietroburgo, 2021; foto di Viktor Vasiliev

Classici ritradotti Da Einaudi, una nuova, felice versione di Claudia Zonghetti dei «Fratelli Karamazov», il classico russo più ostico per i traduttori: vinta la sfida della differenziazione dei registri, che ne fa esplodere la teatralità

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 19 dicembre 2021

Dostoevskij scriveva male: tra chi legge il russo è una delle considerazioni che più spesso, a «microfoni spenti», si sente ripetere. Il sublime radiografo degli abissi dell’animo sarebbe un prosatore sciatto, brusco, che aggruma giornalisticamente il pensiero. E anzi, proprio questo suo disinteresse per la forma ne avrebbe garantito un’indolore trasponibilità in lingue straniere e il successo planetario. Mai calunnia è stata più subdolamente prossima al vero.

Rendere in italiano lo «scriver male» di Dostoevskij è la sfida essenziale che affronta Claudia Zonghetti nella sua nuova versione in due volumi dei Fratelli Karamazov (Einaudi, pp. 453 + 607, euro 32,00), vincendola su molti fronti. Il nodo del problema è che Dostoevskij scrive male «apposta», e potete immaginare lo sconcerto al riguardo dei traduttori, che di norma glissano, anzi perlopiù normalizzano sfacciatamente. Il procedimento è viscerale, volto a torcere, strizzare la lingua, renderla aspra, ruvida, aggressiva, oltraggiosa, dotandola di uno specifico ritmo serrato e affastellato insieme.

Gli strumenti di Dostoevskij per raggiungere il suo obiettivo sono usati con diversa intensità a seconda della tipologia autoriale: massimamente concentrati nell’ultimo grande capolavoro, il più completo affresco spirituale e il libro più intimo, con al centro un padre padrone oggetto delle brame omicide di tutti i suoi figli, che si chiama come l’autore e come il padre di questi finisce ucciso da un servo, figlio illegittimo malato d’epilessia, ovvero quel «coccolone col venticello» che flagella e ispira Dostoevskij.

Per dare vitalità a un così cupo quadro, innestandolo di torva allegria e di selvaggia carnalità, è interposto un narratore pseudocolto che si immagina testimone degli eventi (di tredici anni prima, in una cittadina di fantasia), ora coinvolto quasi in prima persona, con commenti invasivi, soggettivi, stravaganti, ora del tutto dissolto dietro il punto di vista dei personaggi, spesso esplicitamente evocato.

Zonghetti coglie a pieno la natura ibrida della sua voce, ingolfata di termini dotti dalla semantica più o meno traballante, colloquialismi neutri o anche molto marcati, volti a mirato dissesto. Questa variegata tavolozza è ricostruita con largo impiego di equivalenze funzionali, costante rimodulazione delle anse sintattiche, genuino piglio nell’avvicinare la frase sempre come viene più naturale e istintivo in italiano: un talento raro, che ha l’obiettivo ulteriore di rendere la fruizione istintiva e agevole, suscitare familiarità, e non potrà che conquistare la gratitudine del lettore, pur comportando un allontanamento dalle corde di Dostoevskij.

Zonghetti si ferma là dove Dostoevskij intorsica, evoca balbuzie, inciampo, porta la sintassi in maniera inclemente a rimasticarsi: cifra, va detto, primaria del vano arrovellarsi dei personaggi davanti ai meandri della propria psiche. La traduttrice imperversa inclemente su connettivi, nessi, raccordi, avverbi vari, punta a una parola solida, centrata, individualmente suggestiva. Per intendersi: in russo c’è una galleria immane di indefiniti (oltre cinquecento occorrenze di kakoj-to nelle varie forme), ostentatamente ridondanti, che hanno ingarbugliato e asfissiato ogni traduttore: Zonghetti, con coraggiosa oltranza, li omette in pratica tutti.

Autore e traduttrice danno il loro meglio in fatto di differenziazione espressiva dei registri quando il romanzo si squaderna in psicodramma, facendo esplodere la sua maestosa, travolgente teatralità: ogni personaggio ha la sua maschera verbale vivida e tangibile, fortemente caratterizzante, e da qui scaturisce l’impressione ineguagliabile di ascoltare non personaggi ma persone, in tutta la loro incoerente veemenza, fino in fondo al caos dell’anima.

Con la stessa intensità in cui suona in russo, l’arroganza stolida e autocompiaciuta di Fëdor Karamazov si esprime in una gamma di note di ironia pirica e becera mista a pagliaccesca autodenigrazione; il figlio maggiore Dmitrij è stolta baldanza, iperboli, parossismi; quello di mezzo, Ivan, è sprezzante senso di superiorità, argomentazione incisiva e pressante, cinismo, via via scalfiti dal crollo della psiche; l’assassino Smerdjakov – che per i traduttori precedenti parlava più o meno la stessa lingua di Ivan – è un coagulo di superbia castrata e vindice mefistofelismo, che biascica servilistici allocutivi, strafalcioni, sordide tirate minacciose; e ancora, sulla linea giullaresca del padre, il capitano Snegirëv, che si farfuglia il fondo dilaniato dell’anima, la suggestiva logica della demenza di sua moglie; magnificamente reso, quanto geniale in Dostoevskij, è il folle in Dio padre Ferapont, sontuoso torso di vecchio di medievale austerità, che letteralmente scolpisce nell’aria, distinte l’una dall’altra, parole arcane, slavismi biblici, brutalità, ruvida fisiologia e termini popolareschi; gli unici dubbi riguardano il figlio minore, Alëša, fulcro, volutamente un po’ fuori fuoco, della narrazione, la cui bontà assoluta, pur impacciata e un po’ passiva, risulta piatta, monocorde e decisamente poco simpatica, mentre in russo ha più palpito, più incertezza volitiva e tensione.

La nuova versione di Zonghetti viene a inserirsi su una paradossale lacuna: nessun altro classico russo era risultato così ostico ai traduttori in tempi recenti. Al lettore non potevano che consigliarsi la centenaria versione di Alfredo Polledro (ancora in commercio per Newton Compton, ma aggiornata con gravi banalizzazioni) e quella del 1949 di Agostino Villa, indubbiamente talentuosa, al di là degli abbagli: tutti i tentativi successivi erano stati oltremodo scialbi, votati a miope illusione di precisione filologica, lontanissimi dalla percezione dello spirito del testo.

Siamo dunque di fronte a una versione italiana dei Fratelli Karamazov destinata a restare a lungo, anche in virtù di diversi altri punti di forza: una resa impeccabile del senso, la capacità di deautomatizzare le formule fisse cui sempre ricorrono i traduttori, una grande modernità e freschezza del tessuto lessicale italiano. Che impone una prevalente tendenza all’attualizzazione, con scelte cruciali come il lei nei dialoghi (con inevitabili adattamenti: voi ai genitori, tu tra compagni di scuola, ma anche uno stridente lei allo starec).

Di pari passo va l’italianizzazione di molti termini iconici del romanzo: la madre di Smerdjakov è fin oltre la semantica del russo Smerdona; il cagnolino strappalacrime diventa Pepe; per il leggendario nadryv, la crisi isterica messa in piazza, la cui semantica è stata interamente riplasmata da Dostoevskij, Zonghetti propone con coraggio un analogo approccio per «straziamento».

Sembra contrastare con questo indirizzo dominante l’introduzione di realia grezzi, né tradotti né spiegati in nota, con delega a un imbarazzante – ma sempre più alla moda – glossarietto finale; ma è una prassi parziale e discontinua, e se l’iconico batjuška che apre il glossario è in realtà nella quasi totalità dei casi tradotto si può anche supporre un contrasto tra strategie editoriali e traduttive.

Brillante è la prova della traduttrice anche di fronte a uno dei più acuti congegni riposti nello «scrivere male» dostoevskiano, quel reticolo sotterraneo di enigmatica significazione aggiuntiva che scaturisce dalla ripetizione di termini apparentemente non marcati in circostanze cruciali da null’altro connesse.

Alcuni sfuggono: umnyj (‘intelligente’), attraverso il quale Smerdjakov vuole infidamente legarsi a Ivan (e fin qui è chiaro, sia in russo che in traduzione), ma che associa l’assassino anche alle forze occulte da secoli in combutta con il maligno (nel «Grande inquisitore») e agli occidentalisti tanto invisi all’autore (del che in italiano non c’è più traccia).

Si perde anche l’inequivocabile sovrapposizione tra il gozzo del padre reso metaforicamente come borsellino e un ludico (ma in realtà sinistro): «O la borsa o la vita!» di Dmitrij a Alëša.

Puntualmente associati sono invece Dmitrij e l’«ufficiale» che seduce la femme fatale Grušenka, l’«occasione» che ha questa per sedurre Alëša e l’infido seminarista Rakitin che la induce, il piedino offeso che migra tra il titolo di un capitolo e una sgangherata poesia d’amore: tradurre al meglio è sempre interpretare, e in questi occulti rimandi c’è una chiave supplementare al romanzo più enigmatico mai concepito da Dostoevskij.

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