Dosso Dossi, cinque storie di Enea, modernità ariostesca
A Roma, Galleria Borghese Metà delle dieci tele che componevano il fregio virgiliano del celeberrimo camerino delle pitture d’Alfonso d’Este a Ferrara: una mostra che ricostruisce le varie tappe della loro dispersione
A Roma, Galleria Borghese Metà delle dieci tele che componevano il fregio virgiliano del celeberrimo camerino delle pitture d’Alfonso d’Este a Ferrara: una mostra che ricostruisce le varie tappe della loro dispersione
Il furto della Deposizione di Raffaello da Perugia; l’incameramento della raccolta del Cavalier d’Arpino (coi bellissimi Caravaggio giovanili) sequestrata in occasione di un processo; l’incarceramento di Domenichino per ottenere da lui la Caccia di Diana che aveva commissionato Pietro Aldobrandini. Sono diversi e famosi gli episodi che dimostrano quanto Scipione Borghese non esitasse a ricorrere alla forza e al sopruso pur di appagare la propria brama di possesso. Non fa eccezione il caso del fregio di tele di Dosso Dossi con Storie di Enea (1520-’21) che si trovava originariamente sopra i Baccanali del camerino delle pitture di Alfonso d’Este a Ferrara. Quell’ambiente già celeberrimo nel Cinquecento, irripetibile antologia della pittura del Rinascimento del Nord Italia, con capolavori di Tiziano e Bellini, era stato già spogliato proprio dall’Aldobrandini all’indomani della Devoluzione di Ferrara (1598), e Scipione, il 15 febbraio del 1608, scrisse a Ippolito Bentivoglio, un uomo della corte di Cesare d’Este (che aveva spostato la capitale del ducato a Modena), affinché si adoperasse per inviargli i quadri che restavano «nel Camerino d’Halabastro (…) donde ne furono cavati altri che S.A. (il duca d’Este) donò al Card.le Aldobrandino i quali mi saranno cari al pari di qualunque altra cosa più stimabile potesse venirmi nelle mani».
Scipione forse non sapeva granché di quei dipinti, magari nemmeno chi ne era l’autore: ma per emulare Pietro, suo predecessore nella carica di cardinal nipote, sembrava una buona idea attingere a quello stesso luogo mitico della Ferrara di Alfonso d’Este. La confusione però regnava anche in quella capitale del Rinascimento allora in abbandono: il fratello di Ippolito, Enzo, dovendo andare a prelevare quei «quadretti a paesi con l’Istoria di Troia», venne invece portato (era l’inizio di marzo) in un altro camerino, dove sul soffitto ne vide altri dieci, su tavola, «veramente miracolosi», «di mano de Dossi»; e inviò quelli, giudicati bellissimi, anche se erano di proprietà del suo duca. Scipione è subito entusiasta, e scrivendo a Enzo si raccomanda «ch’io abbia quelli che già si sono incaminati e non gli altri»: aveva già cambiato idea, famelico di avere sempre di più, sempre di meglio. Alla fine della trattativa ebbe la metà delle tavole del soffitto, e tutte le tele con Storie di Enea; di quei capolavori, già entro l’inizio dell’Ottocento, non ne rimaneva nemmeno uno in collezione.
In occasione della mostra monografica su Dosso del 1998 (Ferrara, New York, Los Angelesas), oltre alla serie delle tavole da soffitto (anch’esse finite in musei diversi) fu possibile ammirare tre delle dieci Storie di Enea (quelle oggi a Birmingham, Ottawa e Washington). Fino all’11 giugno, alla Galleria Borghese (mostra a cura di Marina Minozzi, catalogo Electa), è ora possibile vedere, per la prima volta assieme, oltre a quella di Washington, altre quattro di queste tele, in un lungo fregio (ognuno dei dipinti misura circa 170/185 cm circa di larghezza) allestito nella Loggia al piano superiore, di fronte ai tondi dell’Albani a cui, come sappiamo grazie a un inventario della collezione Borghese del 1693, quattro di quei dipinti facevano allora da base.
Certo è un peccato che stavolta manchino le due di Birmingham e Ottawa, ma quella di Washington oggi è ben diversa da come si presentò alla mostra del 1998: la tela era stata infatti tagliata nel 1925, e la metà destra è ricomparsa sul mercato (per essere poi subito comprata sempre dalla National Gallery of Art) solo nel 2021. Ed è ancora più recente, dell’anno scorso, l’acquisizione da parte del Louvre Abu Dhabi di altre due tele già appartenenti a una collezione privata newyorchese. Un’altra è al Prado e la quinta, individuata da Sgarbi nel 2004, è in collezione privata romana (ed è quindi un’occasione vederla esposta); tre mancano all’appello.
Qui a Roma, insomma, vengono presentate al pubblico novità recentissime circa questo complesso pittorico, il cui prestigio è in qualche modo rispecchiato anche dalle complesse vicende collezionistiche. Ma è la qualità altissima della pittura, di questi paesaggi ariosteschi, che affascinerà i visitatori, quella stessa qualità che conquistò Roberto Longhi, il quale per primo pubblicò la tela poi approdata a Washington, quando ancora non si sapeva che apparteneva al fregio del «Camerino d’Halabastro». E d’altronde, lì, quel fregio non vi era mai stato davvero: paradossalmente il camerino delle pitture, con quei capolavori impareggiabili, era stato presto assimilato nell’intitolazione a uno oggi assai meno noto, quello rivestito da rilievi marmorei («d’alabastro») di Antonio Lombardo (e la sovrapposizione tra i due ambienti è purtroppo reiterata nel saggio della Minozzi).
Il lento ma affascinante progresso degli studi, che ha pian piano aggiunto tasselli alla ricostruzione del Fregio di Enea, è esemplarmente ricostruito, in uno dei saggi del catalogo, da Vincenzo Farinella, che analizza anche l’iconografia del ciclo, e sul soggetto delle tele interviene pure un altro specialista, Peter Humfrey; entrambi si interrogano anche su quella che doveva essere la disposizione dei dipinti, pure in rapporto ai Baccanali sottostanti.
Della freschezza, varietà, vivacità e modernità di questi paesaggi con figure piccole (che dovettero piacere infinitamente nella Roma di primo Seicento, dove quel genere stava proprio allora per spiccare il volo) si sente bene l’eco già in un testo contemporaneo (1525 circa) di Giovio: Dosso «si è dato a ritrarre con mano profusa e gioiosa rupi scoscese, boschi verdeggianti, ombrose rive di fiumi… lieti e fervidi lavori di contadini… marine, navi, caccie e tanti altri spettacoli ugualmente festosi». Nelle Storie di Enea il paesaggio è coprotagonista accanto alle storie virgiliane, che sono anzi rivissute e attualizzate dal maestro ferrarese. Il paesaggio puro, senza soggetto, in pittura nasce probabilmente con il tedesco Altdorfer in quegli stessi anni, ma la sua prima recezione/teorizzazione nella letteratura artistica di età moderna è proprio in questo passo di Giovio su Dosso, dove quel genere sembra già del tutto autonomo.
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