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Doshi, urbanità indu e critica del Moderno

Doshi, urbanità indu e critica del ModernoBalkrishna Doshi, Aranya Low Cost Housing , Indore, 1989 ® Vastushilpa Foundation

Al Vitra Design Museum di Weil Am Rhein, vicino Basilea, la mostra di Balkrishna Doshi L’allievo indiano di Le Corbusier ha iniettato nei principi geometrici e tettonici della tradizione moderna elementi di critica ‘ambientale’ tratti dal suo mondo di valori: in particolare nell’edilizia abitativa

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 5 maggio 2019
Maurizio GiufrèWEIL AM RHEIN (BASILEA)
Il giovane Balkrishna Doshi con il suo maestro Le Corbusier

 

Per raccontare l’architettura di Balkrishna Doshi (Pune, 1927), che con Raj Rewal è tra gli architetti viventi della prima generazione dell’India postcoloniale, il Vitra Design Museum non poteva fare migliore scelta che cominciare dal suo campus per gli studi superiori a Ahmedabad, composto dal Centro per la Pianificazione Ambientale e la Tecnologia (CEPT) e dalla Scuola di architettura. Un complesso edilizio iniziato nel 1966 con la Scuola e completato nel 1994 con la galleria sotterranea Amdavad Ni Gufa che ospita le opere dell’artista indiano Maqbool Fida Husain. Doshi disegna il campus alcuni anni dopo il suo apprendistato con Le Corbusier, che nel 1951-’52 aveva realizzato a Ahmedabad il Museo Sanskar Kendra e Villa Shodhan. L’architetto indiano riprende in particolare gli etimi lecorbusieriani del College of Arts di Chandigarh (1950-’65): l’uso del laterizio e del cemento, la disposizione nord-sud per il migliore sfruttamento dell’aria e della luce, l’impiego della doppia altezza, la soprelevazione e un sistema estensibile di campate per ospitare studi e spazi didattici. Altrettanto evidente è l’influenza di Kahn. Doshi collabora con l’architetto statunitense nell’Indian Institue of Management (1962), considerandolo uno yogi per la sua voglia di scoprire «il valore dell’eterno» e visibilmente dotato di una «coscienza elevata» (Samadhi).
La galleria ipogea Amdvad Ni Gufa
È singolare come da quella adesione ai principi del Moderno, pur riletti alla luce di un diverso rapporto con la storia, l’ambiente e la società, si arrivi, quasi trent’anni dopo, a immaginare, ai margini del campus, la galleria ipogea Amdavad Ni Gufa fatta di gusci di ferrocemento ricoperti di piastrelle di porcellana. In mostra questa è riprodotta a una scala insolita come una grande scultura distesa a terra. Immune dal ripetersi, Doshi è passato con disinvoltura dall’ordine geometrico e tettonico alla configurazione organica dello spazio. La sua condotta critica è già evidente dai suoi contatti con il nutrito gruppo di architetti del Team X che negli anni sessanta si propongono di rinnovare i contenuti del Movimento Moderno, colpevole di una visione deterministica e astratta dei bisogni della società. Nel 1966, infatti, Doshi è a Urbino per partecipare su invito di Giancarlo De Carlo a uno dei meeting del gruppo.
Bisogna però dirigersi nella sala centrale del Vitra Design Museum per cogliere appieno la sua capacità di interrogarsi di continuo intorno alla relazione tra la struttura e la forma. Qui, poco distante dal rifacimento di uno degli ambienti voltati a botta del suo studio a Ahmedabad (Sangath Studio), è illustrato l’altro fronte di ricerca dell’architetto indiano: quello dell’edilizia abitativa, altrettanto importante di quella scolastica. Il complesso residenziale a basso costo per la Life Insurance Corporation of India (Ahmedabad, 1973), o quello denominato «Aranya» (Indore, 1989), rappresentano ancora oggi una pietra miliare di ciò che si deve intendere per edilizia popolare.
Una distanza siderale divide questi progetti da altri paragonabili: ad esempio le case «elementari» del cileno Alejandro Aravena (premio Pritzker come Doshi), in parte standardizzate, in parte in autocostruzione, da noi così sovrastimate, in India sarebbero impensabili. Innanzitutto perché la casa e la città, come scrive Rajeev Kathpalia in catalogo, presumono concezioni che vanno oltre «il regno dell’edilizia» implicando «processi di crescita, cambiamento, identità, e il legame tra individui, famiglie e comunità all’interno di un ambiente culturale». È l’insieme di questi elementi che guida l’urbanità dell’architettura di Doshi, che al pari di Charles Correa e Raj Rewal condivide «nell’architettura informale alcuni principi fondativi», come di recente ha scritto Stefania Rössl in Housing in India (Quodlibet). Ora, nel caso specifico di Doshi, siamo davanti a un’accorta strategia che unisce gli antichi principi dell’architettura indu – ad esempio la griglia di nove quadrati del Vastu Purusha Mandala – con i modelli compositivi dell’architettura moderna, in particolare il mat-bulding,il sistema aggregativo teorizzato sulle pagine di «Architectural Design» (1974) dai coniugi Alison e Smithson (anch’essi protagonisti di Team X).
I tratti formali distintivi sono la disposizione dei volumi sul terreno secondo uno schema privo di verso: un edificato piatto e denso come fosse un tessuto dal disegno geometrico senza orientamento. Una prima straordinaria prova è l’insediamento residenziale nel sobborgo di Vadodara per l’industria chimica GSFC (1969), con perno la monumentale torre d’acqua. Qui, come nei casi prima citati, la forma dell’edificio è data dalle connessioni interne con le sue parti, dall’intreccio del costruito con gli spazi aperti e la strada, il pieno con il vuoto, secondo la misura dei bisogni e le specifiche condizioni ambientali. Costruire un abitato di grandi dimensioni, quale un nuovo quartiere connesso alla città storica, per Doshi è come pensare all’India: una «carta assorbente» che sa accogliere le differenze tra gli uomini perché di ciascuno rispetta «il desiderio di identità». Con questa metafora spiega l’inutilità di seguire «una norma o uno stile», piuttosto la necessità di modulare lo spazio secondo criteri di flessibilità, densità e unità, così come accade nell’«essere psichico» plasmato dalla «totalità delle nostre esperienze».
Si può comprendere allora che a differenza degli architetti occidentali che si cimentarono come lui con l’applicazione del mat-building, quali, a caso, Candilis, Josic e Woods nella Freie-Universität di Berlino, o Van Eyck nell’orfanotrofio di Amsterdam, c’è nel lavoro di Doshi un surplus di significati, prodotto della sua fede religiosa e del rispetto del simbolismo indiano.
La città murata di Jaipur
Prendiamo il caso del masterplan per l’estensione della città murata di Jaipur, Vidhyadhar Nagar (1984), che al piano superiore del museo è illustrato in un enorme grande plastico di legno posto in verticale su una parete. L’espansione urbana per quattrocentomila abitanti di Jaipur è concepita come «un luogo d’incontro» che unisce, attraverso un’infrastruttura rettilinea, l’antico nucleo al nuovo insediamento. Doshi trasferisce all’urbanistica il concetto del prastrara (in sanscrito: trabeazione), che nel tempio indu è l’elemento che unisce il tetto al colonnato allo scopo di dargli una maggiore altezza. Doshi a Vidhyadhar Nagar, nel tentativo di «creare il paradiso» per «essere felici, sani e vivere bene» sulla Terra, ha mirato a «un amalgama giudizioso» fatto di conoscenza della storia e ricerca della migliore vivibilità e sostenibilità, prevedendo la forestazione delle colline per mitigare le piogge dei monsoni, una rete efficiente di canali per evitare lo spreco idrico e un impianto nel parco per il trattamento delle acque reflue della nuova città.
Tuttavia, nel concorso indetto nel 2016 dallo Stato dell’Andhra Pradesh per il progetto della nuova capitale il vincitore è stato Fumihiko Maki, salvo in seguito essere rifiutato dalle autorità governative perché, nonostante le modifiche apportate dall’architetto giapponese, «insufficientemente indiano», come pure Foster + Partners chiamati dopo, con una proposta ancora più «fantasmagorica». Nel suo breve intervento in catalogo Kenneth Frampton ha bene espresso tutta la sua indignazione per questa deplorevole vicenda, anch’essa indice dell’uso spietato del branding in architettura, inimmaginabile per Doshi, paziente, saggio e così ben radicato con la cultura e la storia della sua gente.

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