Visioni

Doro Gjat, orizzonti hip hop

Doro Gjat, orizzonti hip hopDoro Gjiat

Musica Il rapper friulano unisce al rap la sua visione del mondo poetica: «Mentre scrivevo il disco ho visto il cielo della California e ho respirato quello della Sicilia e li ho paragonati al mio cielo, quello del Friuli, scoprendo che hanno lo stesso colore»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 7 giugno 2018

Doro Gjat è un artista che si è scelto forse il percorso più complicato perché all’hip hop unisce una visione del mondo poetica che, pur spaziando in una personale ricerca musicale, in qualche modo resta ancorato alla sua terra, il Friuli. Orizzonti Verticali (ReddArmy) è un omaggio al paesaggio naturale e sono questi orizzonti ad ispirare le parole e il suo hip hop, con dei veri quadri naturalistici che uniscono Los Angeles, il deserto e il cielo d’Asia. Paesaggi della mente come nei brani Icaro o Blu: «Mentre scrivevo il disco ho visto il cielo della California e ho respirato quello della Sicilia e li ho paragonati al mio cielo, quello del Friuli, scoprendo che hanno lo stesso colore. A prescindere da dove viviamo, conta la voglia di costruirci un paio d’ali e corrergli incontro, un po’ come Icaro… Il padre, Dedalo, secondo il mito atterra guarda caso proprio in Sicilia, ecco lo spunto per la duologia di Blu». Anche in questo lavoro Doro rivendica l’autonomia dell’artista di provincia che crea la sua musica fuori dal tessuto metropolitano, per esempio in Rune o Aprile, dove i testi si fanno polemici: «Un quartiere di periferia della grande città, con la sua poesia che sa di asfalto e cemento, è affascinante anche per chi non ci vive, soprattutto ora che la musica urban è il genere più in voga. Ma io ho deciso di cantare la poesia del posto in cui vivo, che sa di erba bagnata dalla pioggia e di neve portata dal vento. Poi chiaramente ogni tanto traspare un filo di frustrazione dovuto alla difficoltà che ho nel valicare i miei orizzonti con la musica… Un orizzonte verticale è per antonomasia più difficile da scavalcare».

Il disco è articolato intrecciando una serie di contaminazioni: pop in taluni punti ma con tante voci e parti strumentali, beat hip hop, cori. Più di un disco “di provincia”, la produzione sembra quasi quella di un album world music: «Le contaminazioni verso un suono più globale è un po’ la chiave del mio lavoro. Ci avevo provato nel disco precedente ma su questo ho perfezionato la formula: le radici sono ben piantate nell’hip hop ma i rami spaziano dove trovano aria buona, senza limiti di sorta. Su Blu, per dire, il breakbeat è quello di Sneakin’ in the back di Tom Scott (lo stesso di Aspettando il sole di Neffa) mentre l’arrangiamento a me personalmente ricorda il De Andrè di Rimini. Il presupposto è: hip hop alla radice, cantautore nell’espressione».

Il filone rap/cantautorato è sempre più presente sulla scena nazionale, con diversi cantanti che propongono un ibrido fra la rima hip hop e il cantato nazionale, trovando il punto d’incontro fra due stili musicali di origine popolare eppure distanti: «Negli anni zero, seguendo la scena hip hop nazionale, mi sembrava quasi che non si riuscisse a staccarsi dalla mera emulazione del suono proveniente da oltreoceano. Senza voler essere polemico penso che in fin dei conti sembrasse più “nostro”, nel senso puro del termine, il lavoro fatto da Neffa negli anni ‘90 piuttosto che quanto spinto dalle major negli anni zero. Adesso invece, grazie allo sforzo di alcune menti brillanti, Dargen D’Amico su tutti, ci sono delle realtà che stanno diventando “popolari” grazie a una ricerca più personale, più pop se vogliamo, ma anche più italiana e più attenta alla propria identità artistica. Per fare qualche nome penso a Coez, Carl Brave e Franco 126, Peyote e Dutch Nazari. Ecco, vorrei percorrere una strada mantenendo vive le particolarità del mio suono, puntando a quella zona grigia tra hip hop e cantautorato che ritengo essere il risultato genuinamente hip hop della musica del nostro Paese».

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