Doro Gjat, il rapper canta l’emigrazione
Note sparse Anomalo esordio solista del friulano Luca Dorotea, già cantante dei Carnicats. «Vai fradi» è un disco che ribalta alcune convenzioni del rap italiano in favore di un sound più francese, in cui influenze disparate generano un’operazione ben riuscita
Note sparse Anomalo esordio solista del friulano Luca Dorotea, già cantante dei Carnicats. «Vai fradi» è un disco che ribalta alcune convenzioni del rap italiano in favore di un sound più francese, in cui influenze disparate generano un’operazione ben riuscita
Anomalo esordio solista del friulano Luca Dorotea, in arte Doro Gjat, già cantante dei Carnicats. Vai fradi (ReddArmy) è un disco che ribalta alcune convenzioni del rap italiano in favore di un sound più francese, in cui influenze disparate generano un’operazione ben riuscita. Dub, pop, elettronica, tromba, piano, violino, che si accordano con testi in inglese, italiano e friulano. Ma la particolarità sta proprio che Doro parte dalla provincia, racconta la sua terra con una nuova generazione di emigranti, in altre parole la lontananza. Nel suo fortunato video Ferragosto, si vedono i ragazzi tornare al paesino: «In quanto friulani, siamo abituati a vedere la nostra gente lasciare il paese per cercare fortuna all’estero. Io stesso sono passato attraverso quella fase, anche se non è verso l’estero che mi sono rivolto. A diciannove anni sono letteralmente scappato dal paese e mi sono trasferito a Bologna, all’epoca uno dei centri nevralgici dell’hip hop italiano».
Ma non trova la Mecca, anzi: «Purtroppo in quel momento il movimento hip hop si era inaridito. Al tempo stesso sentivo la mancanza dei pomeriggi soleggiati al campetto così come delle nottate limpide trascorse a fumare sotto le stelle. È stato in quel periodo che ho cominciato a maturare quel senso di perenne nostalgia che sento appena mi allontano dal Friuli. Che poi è alla base del processo creativo che c’è dietro Ferragosto e buona parte dei pezzi di Vai fradi».
Doro è anomalo anche nell’aspetto: ha la faccia pulita e una voce fresca perché, come dice nel disco, esistono rapper montanari senza tattoo: « Quella è una provocazione dovuta al fatto che spesso mi sono sentito un emarginato della cultura hip hop. Quella rima scandisce il mio essere ’’diverso’ dagli stilemi tipici del genere: non vengo dai palazzoni, non maneggio panette di bamba, non sono ricoperto di tattoo. Ricordo Esa che in Lotta armata diceva che l’hip hop è un mezzo, non un fine. Per me l’hip hop è sempre stato un mezzo per esprimermi, in linea con il principio del «keep it real», rimanendo quindi «vero». Un montanaro, insomma! (ride, ndr)».
Cresciuto con Neffa nelle orecchie, capisce che non serve scimmiottare gli altri: «Magari avrei cercato di rincorrere qualche micro tendenza filo-americana. O magari mi sarei trasferito a Milano, avrei cercato una collaborazione altisonante per un bel singoletto da portare a The Voice. Chi emula qualcosa già prodotto preferisco definirlo un ’performer’. Nel mio caso ho tentato di mescolare gli ingredienti creando delle formule nuove, mai sentite».
Nel disco emerge il lato più poetico quando omaggia il suo territorio: «Dare una voce alla mia gente, questo sì che è hip hop! Non c’è paesaggio metropolitano che potrebbe mai sostituire la bellezza delle mie valli nella luce obliqua del tramonto. Che vuoi farci? Sono un romantico inguaribile e cerco soltanto di ritrarre la mia terra come la vedono i miei occhi, attraverso il rap. Che così diventa un mezzo, non un fine. Giusto?».
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