Dora Garcia, nel mistero del corpo e della sua ferocia
TEMPI PRESENTI Parla l’artista spagnola in mostra al Mattatoio di Roma fino al 9 gennaio. La personale «Conosco un labirinto che è una linea retta» cita nel titolo un racconto scritto da Borges. «L’inconscio influenza sempre il visibile e l’invisibile, ma penso soprattutto che sia alla base della pratica artistica. È l’archetipo»
TEMPI PRESENTI Parla l’artista spagnola in mostra al Mattatoio di Roma fino al 9 gennaio. La personale «Conosco un labirinto che è una linea retta» cita nel titolo un racconto scritto da Borges. «L’inconscio influenza sempre il visibile e l’invisibile, ma penso soprattutto che sia alla base della pratica artistica. È l’archetipo»
Una linea tracciata con il pennello intinto nella vernice bianca unisce i padiglioni 9A e 9B del Mattatoio di Roma, curata da Angel Moya Garcia la mostra personale Conosco un labirinto che è una linea retta (fino al 9 gennaio 2022) – il titolo è una citazione del racconto di Jorge Luis Borges Tlön, Uqbar, Orbis Tertius – realizzata in collaborazione con la Reale Accademia di Spagna a Roma, presenta le opere dell’artista spagnola Dora García (Valladolid, 1965, vive e lavora a Oslo) protagonista di numerose mostre d’arte internazionali, tra cui le Biennale di Venezia 2011, 2013 e 2015. Un labirinto visibile, ma anche misterioso, in cui la linea retta – l’ineluttabilità – mette in relazione il film Segunda Vez (2018) con Il labirinto della libertà femminile.
Le «performance delegate» si susseguono: in un cerchio una donna legge poesie di Amelia Rosselli, Anna Achmatova, Alejandra Pizarnik, Mariangela Gualtieri; la Sfinge si aggira ponendo enigmatici quesiti mentre nella lettura della partitura di Lacan l’oratore/ascoltatore si trasforma in lettore/danzatore. Un percorso di perlustrazione dell’inconscio che per il curatore è «un’incessante negoziazione tra colui che parla e colui che ascolta, tra autore e lettore, tra attore e pubblico», in cui viene sovvertito il limite tra la finzione della rappresentazione e la realtà dell’accadimento.
Fanno parte dell’opera «Il labirinto della libertà femminile» le parole «position voice mundo», qual è il loro significato?
L’intera scenografia è basata su un disegno di Gloria Anzaldúa, scrittrice femminista chicana e sulla citazione di queste sue tre parole. Nella mia interpretazione «posizione, voce e mondo» sono la chiave per mostrare la soggettività nell’esercizio dell’indirizzare al mondo la propria voce. Quando preparavo questo lavoro, pensando alla complessità del significato di libertà della donna ed emancipazione – proprio in quanto donna – ho riflettuto su come proprio queste parole di Anzaldúa provenissero da una posizione atipica. Lei stessa si è sempre trovata nel «luogo sbagliato» senza trovare una definizione specifica in cui sentirsi a proprio agio. Del resto penso che sia abbastanza comune la difficoltà di adeguarsi alla definizione di femminilità.
Alla tematica femminista si riferisce il disegno della mano con la moneta dorata proveniente dalla mitologica azteca.
Anche questo è un riferimento che proviene da Anzaldúa. In quanto chicana la cui discendenza indios è precedente a quella dei colonizzatori dell’America, nel libro Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, lei si identifica con la divinità azteca Coyolxauhqui che fu uccisa dal fratello e il suo corpo tagliato a pezzi. In una città del Messico (Templo Mayor a Tenochtitlán – ndr) è stata ritrovata la sua raffigurazione su una pietra dove venivano svolti riti sacrificali con il sangue. Quello che trovo interessante è l’idea di questo corpo femminile smembrato, dissociato dai canoni occidentali di tenerezza e maternità, messo in relazione con l’idea di ferocia e paura. Quindi la rottura dei canoni di sottomissione da parte di questa donna forte.
Nel rendere il pubblico protagonista dell’opera c’è anche una volontà di farlo partecipare al «disvelamento dell’illusione»?
Sì. C’è un riferimento a Bertolt Brecht che nella storia della performance teatrale ha distrutto gli elementi dell’illusione come forma liberatoria per lo spettatore. Non sono sicura che ciò emerga in questa specifica mostra, ma è stato un riferimento importante per me. Nel teatro borghese lo spettatore è invisibile, al contrario nella tradizione brechtiana è esso stesso parte dell’azione, anzi incoraggia la sua emancipazione nel portare l’esperienza teatrale in una dimensione reale trovando una via liberatoria. Non posso dire di identificarmi con questa visione, ma il tipo di performance che porto avanti negli anni non è mai un intrattenimento ma una durational performance, ovvero un sistema in cui lo spettatore è invitato a prendere parte, ma che va sempre avanti indipendentemente dalla sua presenza o assenza.
Transitorietà, controllo, tempo, ripetizione e precarietà sono elementi molto presenti nel suo lavoro…
Lo sono soprattutto in relazione alla performance La partitura Sinthomo, che si basa sul seminario Le Sinthome di Lacan sugli scritti di James Joyce in cui si parla di «attività precaria» collegata all’instabilità come di qualcosa che mantiene la soggettività sana. Tra le «attività precarie» c’è anche la pratica artistica. Ma anche per me che sono artista non è detto che funzioni ogni volta, è necessario che quest’attività venga praticata quasi in maniera frenetica.
Naturalmente, poi, la pratica artistica include anche la precarietà economica e penso che si riferisca anche alla narrativa, può toccare la poesia, la letteratura e anche ciò di cui sto parlando con te, ovvero quel tipo di costruzione narrativa di storie alla cui luce può essere letta anche questa mostra.
Jacques Lacan è citato anche nel film «Segunda Vez».
Il film parla dello psicoanalista argentino Oscar Masotta che ha avuto diverse vite: a 20 anni era critico letterario, a 30 critico d’arte contemporanea e a 40 psicoanalista. Nel film queste diverse parti si possono vedere tutte insieme, anche se forse l’accento principale è sulla sua pratica artistica legata alla sua lettura psicoanalitica. Un altro aspetto importante del film è la lettura politica nell’analizzare il ruolo degli intellettuali in contesti di «urgenza politica», come lo sono anche i tempi in cui viviamo.
L’inconscio affiora in tutte le opere. È così?
Qualche giorno fa ho letto una citazione dello psicoanalista argentino Braunstein in cui l’inconscio è definito come ciò che permette all’essere umano comune di diventare poeta, mentre per Lacan è il luogo del linguaggio e per Freud quello degli impulsi. L’inconscio influenza costantemente il visibile e l’invisibile, ma penso soprattutto che sia alla base della pratica artistica. È l’archetipo. Nella poesia dove il linguaggio nasce dal profondo – in generale lo è nella pratica artistica – è anche il modo con cui l’artista parla alla gente.
La sua pratica artistica include la «performance delegata», come l’ha definita la storica dell’arte Claire Bishop.
Fin dai tempi in cui ero studente, in Olanda, pur essendo interessata al linguaggio della performance, ero consapevole di voler rimare fuori dall’azione. All’epoca il modello principale era Marina Abramovic. Ma io odio che la gente mi guardi e mi identifichi come l’artista, la persona eccezionale. Per me l’artista deve essere come tutti gli altri, semplicemente qualcuno che si occupi di arte. Della performance mi piace soprattutto il riscontro immediato, l’idea del qui e ora e di come ciò possa influenzare la realtà e modificare il quotidiano. Ero già interessata al teatro invisibile di Augusto Boal, ma solo nel 2007 ho sentito parlare per la prima volta di «performance delegate». È stato un passaggio molto naturale per me.
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