Da molti anni, sulla celeberrima scoperta della doppia elica del Dna da parte di James D. Watson e Francis Crick grava l’ombra di una grave discriminazione sessista. La colpa è dello stesso Watson. Nel saggio autobiografico La doppia elica, pubblicato nel 1968, lo scienziato statunitense raccontò che lui e Crick – all’epoca all’Università di Cambridge – giunsero alla scoperta nel 1953 grazie al furto dei dati sperimentali raccolti da Rosalind Franklin al King’s College di Londra e trafugati dal collega-rivale di lei Maurice Wilkins. Mentre a Watson, Crick e Wilkins nel 1962 è toccato l’onore di un premio Nobel per la scoperta, il nome di Rosalind Franklin è riemerso solo in tempi recenti: donna, ebrea e scienziata, oggi è un’icona del femminismo e della lotta contro le discriminazioni di genere ritratta in film e opere teatrali di successo.

ORA, DUE STORICI della scienza, il britannico Matthew Cobb e lo statunitense Nathaniel Comfort, riscrivono parzialmente quella vicenda sottraendo Franklin al ruolo di vittima sacrificale del patriarcato ma restituendole quello di scienziata di primissimo ordine, a cui la parte dell’ingenua che si fa fregare i dati va un po’ stretta. Per riaprire il caso Franklin, Cobb e Comfort hanno scelto l’ultimo numero della rivista Nature, quello pubblicato il 25 aprile. Una scelta non casuale: sul numero del 25 aprile, ma del 1953 – esattamente settant’anni fa – veniva infatti pubblicato lo storico studio di Watson e Crick che ipotizzava che il codice genetico fosse incorporato in una lunga molecola di forma elicoidale composta da una sequenza di nucleotidi appaiati. La grande rivoluzione biotecnologica, che oggi ci consente di analizzare il Dna delle specie e di modificarlo quasi a piacimento, parte da lì.

I due storici hanno consultato del materiale finora inedito – una lettera di una collega di Franklin e una bozza di un reportage mai pubblicato dalla rivista Time – da cui si intuisce che le cose sono andate in un modo parzialmente diverso da come le ha raccontate Watson nel suo libro. È vero che i dati sperimentali li aveva prodotti lei. Si trattava di immagini dette cristallografie, ottenute con un metodo simile alle ombre cinesi: se si illuminano oggetti molto piccoli come dei frammenti di Dna con luce ad alta energia (ad esempio raggi X) invece dell’ombra viene proiettata una «figura di diffrazione». Lo si può fare anche a casa: basta indirizzare un puntatore laser su un capello ben teso. Da queste immagini si possono ricostruire le caratteristiche degli oggetti illuminati nonostante misurino poche decine di micron (il capello) o qualche miliardesimo di metro (il Dna). Franklin era bravissima a ottenere immagini nitide di molecole complesse e, secondo Watson, fu l’eccezionale «fotografia n. 51» a portarlo sulla giusta strada.

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SOLO CHE WATSON non ebbe bisogno di rubarne una copia. Secondo i documenti inediti, Franklin aveva condiviso i suoi dati di buon grado come parte di un normale scambio di informazioni tra colleghi e sapeva che Watson e Crick erano al corrente dei suoi risultati. Lo dimostrano i messaggi inviati loro per tramite della collega Pauline Cowan. Anche se dal 1951, anno in cui era approdata al King’s College dopo una lunga esperienza parigina, Franklin aveva avuto rapporti tesi con i colleghi, sul piano scientifico la relazione tra Londra e Cambridge non si era mai interrotta. La scienziata sapeva bene cosa significavano quelle immagini: lei stessa aveva raggiunto indipendentemente molte delle conclusioni poi condensate nella «doppia elica». Considerarla solo una vittima inconsapevole la priva di un ruolo da protagonista che all’epoca nessuno, se non il narcisismo di Watson, si sarebbe sognato di negarle: era una dei quattro scopritori della struttura del Dna, a pari titolo. Tanto è vero che sul famoso numero di Nature lo studio sulla doppia elica fu seguito da uno di Wilkins e da un altro di Franklin, che riportavano le prove sperimentali a supporto della teoria.

La tesi dei due storici non riabilita il novantacinquenne Watson, che non ha mai smesso di spararle grosse. In vita sua ha sostenuto l’inferiorità intellettiva degli africani, ha giustificato l’antisemitismo e ovviamente ha ribadito che «le donne sono probabilmente meno dotate» in campo scientifico anche se «per uno scienziato è più divertente averne attorno». Nel suo libro, con Franklin non si trattenne. «Rosy» (sic) è quella che «avrebbe avuto il suo fascino se si fosse occupata un minimo del suo abbigliamento», che «o se ne andava o la si rimetteva in riga» perché «il posto migliore per una femminista era nel laboratorio di qualcun altro». Pubblicare oggi un testo del genere sarebbe impensabile e anche nel 1968 fu complicato: dopo aver letto la prima stesura, Crick e Wilkins minacciarono di querela l’università di Harvard che avrebbe dovuto stamparlo, costringendola a lasciare ad altri editori uno dei saggi scientifici più venduti del Novecento.

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TUTTAVIA, il nome di Franklin era già entrato in un cono d’ombra assai prima del libro di Watson, e per motivi diversi. Nel 1953, Franklin stava lasciando il triste King’s College per il più internazionale e aperto Birkbeck’s dove dedicarsi ad altri temi di ricerca e smise di presidiare il campo. E il Nobel del 1962 non le fu assegnato perché nel 1958 morì a soli 37 anni per un tumore ovarico. Se fosse sopravvissuta, il comitato dei Nobel si sarebbe probabilmente trovato in una situazione imbarazzante, dato che lo statuto non ammette più di tre vincitori. Ma avrebbe potuto scrivere una storia diversa, e impedire che i meriti di Franklin fossero rapidamente dimenticati. Non fu dunque «La doppia elica» a causare l’accantonamento di Franklin, ma il contrario: l’oblio precoce consentì a Watson di riscrivere a suo favore la scoperta come l’intuizione di un genio che seppe guardare tra le scartoffie di una femminista isterica e incompetente. Una versione che i nuovi documenti smentiscono.

ANCHE ESCLUDENDO le scorrettezze personali, tuttavia, Franklin non aveva lavorato ad armi pari con i colleghi uomini. Watson e gli altri partecipavano a una rete di scambi di conoscenze molto estesa e trasversale: a Cambridge, il migliore amico di Watson era il figlio del suo più importante rivale statunitense, il chimico Linus Pauling che avrebbe potuto soffiargli la scoperta. Invece, il King’s College rappresentava un ambiente ostile per una donna colta, cosmopolita e proveniente da una famiglia di socialisti e suffragette. «Qui non ci sono ebrei o stranieri» scrisse all’amica e biografa Anne Sayre lamentando la chiusura culturale di un luogo in cui le poche donne mangiavano in una mensa separata e frequentato soprattutto da «tonache svolazzanti e seminaristi» (l’espressione è di un’altra biografa, Brenda Maddox). In questo contesto era difficile tessere relazioni feconde. Aver tenuto il passo di scienziati assai più spregiudicati e organizzati di lei in condizioni di svantaggio testimonia la sua bravura. Nella comunità scientifica che si era messa a caccia della struttura del Dna, Franklin è stata dunque una protagonista asimmetrica, che ha regalato assai più di quanto abbia ricevuto. Nelle università di oggi, tonache e seminaristi sono più rari ma la competizione si è fatta persino più dura. E la condizione di molte donne che lavorano nella ricerca scientifica non è così lontana dalla sua.