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Dopo lo spasmo che partorì, violentemente, l’Europa

Dopo lo spasmo che partorì, violentemente, l’EuropaGiovanni Battista Moroni, Il maestro di scuola, 1575 c.ca, Washington, National Gallery of Art

Storia Nell’imponente volume che lo storico inglese dedica a «La cristianità in frantumi» (Laterza ) trovano posto non solo le élites e le mutazioni del potere politico, ma anche le lotte contadine e dei poveri criminalizzati

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 25 febbraio 2018

Nel 1648 un terribile terremoto colpì Istanbul, interrompendo il flusso degli acquedotti e la preghiera nelle moschee e dando inizio a un rivolgimento di palazzo che mise in crisi l’Impero ottomano e portò alla deposizione del sultano, all’uccisione e allo smembramento del cadavere del ministro Ahmed Pascià e a una strage: fatti che fecero dire agli ulema più infervorati che, in quel modo, Dio intendeva castigare la Sublime Porta per avere deviato dagli insegnamenti del Profeta. Lo ricorda Mark Greengrass in un ponderoso volume coraggiosamente reso disponibile al lettore italiano, La cristianità in frantumi Europa 1517-1648 (traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, pp. 836, euro  38,00); un’opera che, tra i suoi scopi principali, non ha quello di raccontarci gli accadimenti occorsi nella capitale turca (nel libro chiamata curiosamente Costantinopoli), bensì di tracciare un profilo storico dell’Europa nella prima età moderna. Apparso per Penguin nel 2014, copre un arco di tempo significativo a ridosso di due centenari concomitanti: quello della Riforma e quello dell’inizio della Guerra dei Trent’anni.

Punto di avvio strutturale

La ricorrenza delle tesi di Wittenberg moltiplica le biografie di Lutero (solo in lingua inglese, di recente, ne sono state scritte una dozzina, alcune già tradotte); quella della crisi boema, che avrebbe portato al più grande massacro europeo dell’epoca moderna, ben raccontato in queste pagine, promette nuovi studi che avranno probabilmente scarsa fortuna in Italia (la guerra dei Trent’Anni, più della Riforma, è vista come un brutto affare tedesco).

Greengrass inganna un po’ con il suo titolo, che sembra promettere una storia religiosa; in realtà parte dalla struttura (la demografia, l’abitare, il mangiare, la produzione agricola, il rapporto tra città e campagna, il denaro e il commercio, la servitù e la nobiltà, la fissità sociale e la rivolta), per poi allargare lo sguardo al resto del mondo negli anni in cui la coscienza europea prese atto dell’esistenza di un ignoto continente e cominciò a cartografare la terra sulla spinta della famelica aggressione coloniale in Asia, in Africa e in America. La tesi del saggio, infatti, non si risolve nella constatazione che nel Cinquecento cessò di esistere la cristianità come idea universale di appartenenza alla Chiesa latina e come senso della storia terrena della Città di Dio, ma sostiene che la concezione dell’Europa nata dai rivolgimenti di quel tempo non sarebbe stata possibile senza la prima globalizzazione seguita ai viaggi e alle conquiste occidentali. È una tesi che l’autore non dimostra, per la verità, fino in fondo ma che gli permette di includere ampi squarci sulla mondializzazione delle reti commerciali, sui conflitti coloniali e sulle missioni religiose della prima età moderna, tenendo conto di tutti i nuovi orientamenti storiografici (dalla storia delle donne a quella dell’informazione e dell’opinione pubblica, dall’attenzione alle immagini alla storia degli imperi) per raccontarci in modo tradizionale un paesaggio ben noto con incursioni inedite.

Oltre alle pagine dedicate all’America coloniale fino al Cile o l’Impero ottomano (che, come minaccia, fu un elemento costitutivo dell’idea di Europa, secondo Greengrass), sono particolarmente acute le parti dedicate al Regno di Polonia-Lituania e all’Ucraina, che divennero aree deboli nel momento in cui, intorno alla metà del Seicento, lo Stato dinastico e fiscale si rafforzò: allora il potere contrattuale della nobiltà, la fragilità di una corona elettiva e il pluralismo religioso di quell’area finirono per soccombere, con tanto di massacri della popolazione ebraica che ricordano la lunga durata di un problema, l’anti-giudaismo, ancora presente in quella regione del continente.

Sollecitato dall’attualità L’attenzione che l’autore dedica all’est dell’Europa segnala come il libro non sia estraneo a sollecitazioni che gli derivano dal presente: Greengrass è un inglese esperto di storia francese, prima che la Brexit diventasse un rozzo discrimine tra presunti europeisti e anti-europeisti, dunque analizza il momento in cui ebbe origine la moderna divisione degli europei (che, non c’è dubbio, deriva in larga parte dalla frattura della Riforma) senza alcuna concessione alle derive identitarie dei nostri giorni. Tuttavia, scegliere il 1517 e non il 1492 come data di inizio significa sottovalutare (o porre in secondo piano) l’egemonia cattolica della prima età moderna e il senso che ebbe per tutta l’Europa la brutale cancellazione della convivenza tra islam, ebraismo sefardita e cristianesimo in Castiglia, in Aragona e in Portogallo (in questo caso in senso contrario rispetto alla storiografia degli ultimi anni).

Non a caso Carlo V figura più come imperatore che come sovrano di Spagna, e il cuore del libro è l’Europa composta dalla Francia, dalla Germania, dalle Fiandre e dalla stessa Inghilterra. Quanto alla Moscovia, l’autore puntualizza che lo stereotipo della crudeltà e del dispotismo russi nacque grazie ai resoconti degli occidentali del Cinquecento (non ultimo l’inglese Giles Fletcher), ma non sembra discostarsi troppo dall’idea che quella terra, anche al di qua degli Urali, avesse alcune affinità con l’Europa senza tuttavia condividerne i «valori».

Quali fossero questi valori non è dato comprendere leggendo il libro, che nonostante alcuni limiti si impone come una sintesi priva di asse portante ma tra le migliori in circolazione, attenta a riferire non solo la storia delle élites e delle mutazioni del potere politico, ma anche quella delle aspirazioni e delle lotte dei contadini massacrati nel 1525, o quella dei poveri criminalizzati alle soglie del mondo moderno. Quanto alla conclusione, Greengrass prende le distanze in modo implicito dalla tesi esposta da Geoffrey Parker in un libro del 2013 – Global Crisis: War, Climate Change and Catastrophe in the Seventeenth Century– dove si batte l’accento sugli effetti globali del cambiamento climatico, che nel corso del Seicento afflisse con la glaciazione tutto l’emisfero settentrionale.
Dopo un ciclo inedito di guerre, di rivolte e di catastrofi culminato negli anni quaranta del XVII secolo, il «violento spasmo» – scrive Greengrass –, come un parossismo si concluse con una sorta di «ritorno alla status quo» e senza un nuovo ordine internazionale o un’effettiva eclissi della cristianità.

In polemica con Schmitt

L’obiettivo polemico, insomma, sono le tesi dei seguaci di Carl Schmitt, prima ancora che la storia comparativa di Parker, anche se il fabula docet di Greengrass risulta piuttosto debole e non rende giustizia a un libro peraltro tanto ricco di sfumature: La cristianità in frantumi è un affondo nel passato remoto che ci segnala fino a che punto i conflitti abbiano distrutto l’Europa, ma ci regala anche piccoli squarci di ottimismo quando riferisce storie come quella che accadde nel 1564 in una Lione che presto sarebbe stata martoriata dalle guerre di religione: in occasione di una visita del re Carlo IX, i magistrati fecero sfilare i bambini, figli di protestanti e di cattolici, tutti insieme, mano nella mano, per ricucire le fratture della comunità. Nell’Europa di oggi, non più cristiana, attraversata da parossismi xenofobi e affetta da una crisi di credibilità, con la guerra alla sue porte, c’è da augurarsi che qualcuno ricordi questo piccolo episodio, benché privo di esiti positivi.

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