Facile immaginare il succo dei titoli dei giornali americani domani – “svolta a sinistra” dei democrat – e l’esultanza dei social media di fede sanderista.

Il Partito democratico affida la leadership del suo massimo organismo dirigente, il Dnc, all’esponente più a sinistra del momento, Keith Ellison, africano americano, musulmano, sostenuto da Bernie Sanders e da Elizabeth Warren, ma anche dal capogruppo al senato Chuck Schumer.

Ma andrà davvero così, come affermano certi pronostici della vigilia? O ad avere la meglio sarà il favorito in partenza, Tom Perez, spalleggiato dagli apparati e dall’amministrazione uscente, in modo aperto da Joe Biden?

Può perfino andare a finire, in caso di stallo, che prevalga un terzo candidato. Ma esito finale a parte, intanto conta che nel Partito democratico si sia riaperto davvero il confronto e la sinistra abbia acquistato peso e voce, come non si vedeva da tempo.

Un confronto reale che, fosse arrivato fino in fondo, senza remore, nelle primarie e nella convention, proprio come si osserva in questi giorni, forse avrebbe portato a un esito diverso le elezioni di novembre.

Carica organizzativa, più di coordinatore che di «segretario», quella di party chairperson del Democratic National Committee (Dnc), l’organo di direzione del Partito democratico, non è stata mai particolarmente ambita.

Ultimamente, però, non è stato più così, anche personaggi di rilievo hanno ricoperto l’incarico, come Howard Dean e Tom Kaine, e adesso l’elezione della nuova party chairperson è combattuta, specie dopo la dura sconfitta di Hillary Clinton, con un livello di partecipazione che investe militanti e simpatizzanti come mai s’era visto prima.

Sconfitta che ha anche segnato il ridimensionamento dell’area clintoniana nel Partito democratico e la messa in crisi della leadership che ne era espressione. Si ricorderanno le dimissioni di Debbie Wasserman Schultz da numero uno del Dnc.

Fu il momento culminante delle primarie democratiche, dopo le rivelazioni di una fitta corrispondenza di email tese a infangare con insinuazioni e manipolazioni Bernie Sanders e a spingerlo fuori della corsa, nel momento in cui da underdog diventava un rivale temibile per Hillary, in termini di consensi ma anche di proposte alternative che trovavano sempre più spazio nell’elettorato democratico.

Oggi dunque i 447 componenti del «parlamentino» democratico riuniti in assemblea a Atlanta eleggeranno il prossimo chair, i suoi vice, il tesoriere, il segretario e il responsabile finanziario.

Dopo l’8 novembre, dopo l’uscita di scena di Barack Obama, e con l’affermazione di una presidenza di estrema destra, «eversiva», che procede a passi spediti e decisi lungo il solco annunciato in campagna elettorale, l’elezione del numero uno del Dnc ha assunto un significato politico notevole, che non riguarda tanto il profilo e il potere della leadership quanto la linea politica stessa del partito.

Nonostante il clima ad alta tensione nel confronto tra i candidati è prevalso l’impegno a indirizzare gli strali verso il comune nemico esterno, il presidente eletto Donald Trump.

Naturalmente, fronteggiare Trump può essere fatto con diversi atteggiamenti e con diversi toni. E, soprattutto, per essere efficaci, significa analizzare fino in fondo la portata e le origini del tonfo di novembre e quindi del distacco di tanti elettori democratici, la ragione principale della sconfitta, che o sono rimasti a casa o non hanno votato per Hillary Clinton per votare addirittura per Donald Trump.

Va anche detto che non solo brucia il risultato delle presidenziali, ma anche, forse perfino più, dal punto di vista della tenuta del partito, la perdita nel corso della presidenza Obama di ben 1030 seggi nel congresso federale, nei parlamenti e nei governi locali.

Quindi è una sconfitta che viene da lontano e che non può essere imputata unicamente alla candidatura sbagliata di Hillary. Obama, quanto meno, ha la responsabilità di essersi infischiato del suo partito, lasciandolo completamente nelle mani dei clintoniani.

La corsa per la leadership della direzione del Partito democratico, nelle ultime battute, si è ridotta da sei a due contendenti con reali possibilità di successo, il segretario al lavoro uscente Tom Perez, 55 anni, e Keith Ellison, 53 anni, congressman del Minnesota.

Perez è stato incoraggiato a candidarsi dall’entourage di Barack Obama. In partenza, era considerato il più quotato degli aspiranti alla carica, pare possa contare su 205 voti su 224, il minimo richiesto per l’elezione.

Keith Ellison avrebbe invece dalla sua parte 153 membri del Dnc, ma il suo portavoce Brett Morrow definisce questa presunta conta «totalmente inaccurata».

Dei due favoriti, Perez ha fama di mediatore, capace per questo, secondo i suoi sostenitori, di ricomporre le diverse anime di un partito lacerato dopo lo scontro delle primarie.

Bernie Sanders ha definito il suo approccio quello tipico dello «status quo che ha fallito». Keith Ellison, grande comunicatore in tv e trascinatore nei comizi, piace ai sanderistas e per ciò stesso è considerato estremista e «divisive» dagli esponenti clintoniani e obamiani.

Ellison appare più attrezzato per guidare un’opposizione dura a Trump e a contrastarne il populismo. In un dibattito organizzato dalla Cnn, ha sostenuto che Donald Trump ha già collezionato una serie di irregolarità da presidente (alludendo a doni ricevuti da leader stranieri e a conflitti d’interesse evidenti) che giustificano l’inizio di un procedimento d’impeachment nei suoi confronti.

Un assaggio del suo «programma» e della linea dei dem se sarà lui il prossimo chairperson del Democratic National Committee.