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Dopo gli attentati Giacarta è pronta a dare «pieni poteri» all’antiterrorismo

Dopo gli attentati Giacarta è pronta a dare «pieni poteri» all’antiterrorismoPoliziotti indonesiani a Surabaya dopo l’attentato suicida – Afp

Indonesia Un migliaio di indonesiani erano in Siria quando a Raqqa governava il Califfo

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 maggio 2018

Dopo che per due giorni Surabaya, la seconda città dell’Indonesia, è stata macchiata da una tragica scia di sangue, montano le pressioni sul parlamento di Giacarta perché voti una legge ad hoc – già sottoposta dall’esecutivo nel febbraio 2016 – che garantisca pieni poteri all’antiterrorismo.

TUTTO COMINCIA DOMENICA, quando un’intera famiglia – genitori e figli anche minorenni – scelgono tre chiese cristiane – cattoliche e protestanti – per farsi saltare all’ora della messa. Il giorno dopo altri kamikaze scelgono invece il quartiere generale della polizia. Fa da cornice un’esplosione in una casa privata che segna il fallimento di un attentato in fieri e la morte dell’artificiere. Il bilancio, forse ancora provvisorio, è di 25 morti e 47 feriti, rivendicati dallo Stato islamico.

Un duro colpo dopo mesi di calma (relativa) costellata di piccoli episodi, attentati andati a vuoto, perquisizioni e retate dell’intelligence da quel 2016 in cui affiliati al califfato avevano colpito nel pieno centro di Giacarta.

OGGI GLI INQUIRENTI puntano l’indice sul gruppo Jamaah Ansharut Daulah (Jad), perché Dita Upriarto, il padre folle che ha guidato la sua famiglia contro le chiese, ne sarebbe stato il capo a Surabaya. Jad (anche nota come Jamaah Ansharut Tauhid) è un gruppo filo Califfato creatosi da una costola della Jemaah Islamiyah, organizzazione clandestina filoqaedista ormai praticamente smantellata e ritenuta la responsabile della strage di Bali del 2002. Dal presidente Joko Widodo alle organizzazioni islamiche si chiede ora al parlamento di approvare velocemente (forse già in settimana) misure che garantiscano all’antiterrorismo e alla sue cellule esecutive (come la famigerata «Densus 88») di poter eseguire arresti anche solo in base a sospetti e non soltanto in presenza di azioni criminali. Il grande timore viene da un migliaio di indonesiani partiti per la Siria quando a Raqqa governava il califfo e che sarebbero tornati a casa. Dita era tra questi.

DAL 2016 IN AVANTI, quando ci fu l’attacco al cuore di Giacarta, le cose sembravano essere sotto controllo anche se gli obiettivi del neo califfato in Asia orientale restavano abbastanza indefiniti e in parte dormienti: tutto infatti, scrive Guido Corradi nel volume A oriente del califfo: il progetto dello Stato Islamico per la conquista dei musulmani non arabi – «può rappresentare un obiettivo funzionale alla politica del terrore dello Stato islamico e nello stesso tempo un segnale di risposta alle azioni militari contro di esso in Siria ed Iraq. Comunque sia, rimane il fatto che (l’attentato a Giacarta) è uno fra i primi e più gravi compiuto da affiliati al Califfato nell’intero Sudest asiatico.

CERTAMENTE NON IL PRIMO, in Indonesia, di matrice fondamentalista islamica. Infatti nel corso di questo nuovo secolo non sono mancate aggressioni anche più gravi, per lo meno rispetto al bilancio delle vittime». Bali appunto, al netto della presenza di un islam nazionale su posizioni molto moderate. «Più del 90% della popolazione aderisce alla scuola shafi’i, una delle quattro principali scuole giuridiche sunnite, ma molte sono ancora le anime dell’islam indonesiano, soprattutto a Giava dove si concentra oltre metà degli abitanti. Qui – scrive Corradi – in particolare nella parte centro orientale, è ancora molto forte il legame sincretico con l’antica cultura giavanese di matrice indo-buddista, quella degli abangan, che si identificano nella kejawen – la giavanesità – caratterizzata da un mistico e diretto contatto con il divino. In contrapposizione sono i santri, gli ortodossi, che invece seguono forme di religione prive di sincretismi.

SEMPRE A GIAVA SONO NATE nei primi decenni del secolo XX le due principali organizzazioni musulmane ancora oggi attive e significative per numero di adepti, circa 60 milioni: Nahdlatul Ulama e Muhammadyah». Ed è proprio in queste organizzazioni che ora si chiede il pugno di ferro verso chi devia. Il governo non può che apprezzare: l’attentato giunge al termine di una settimana che ha visto riunirsi a Giava teologi indonesiani, afgani e pachistani nel tentativo di organizzare una mediazione intraislamica per alimentare il processo di pace. Forse c’è persino una correlazione tra le bombe di maggio e la lontana guerra nell’Hindukush.

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