Nei suoi ultimi mesi, mentre raccoglieva e ordinava le tessere di quel Novecento poetico americano (Edizioni di Storia e Letteratura 2020) che proprio non avremmo voluto fosse il libro del suo congedo, Caterina Ricciardi (1947-2019) attendeva anche alla traduzione d’alcune poesie diciamo ‘mitologiche’ – o meglio ‘greche’ – di H.D. e Mary Barnard, destinate a due edizioni fuori commercio, a tiratura quanto mai limitata (cinquanta copie), promosse da Gabriele Stocchi e accompagnate da immagini di Luisa Gardini (Ravenna 1935), forse l’artista italiana più vicina alla action painting. Stampate nel 2019 da Continua a Roma, Divae 10 poesie di H.D. portano la firma sia di Caterina sia della Gardini; le 12 poesie di Mary Barnard, del 2021, ahimè solo la firma dell’artista. Sono pubblicazioni preziose e commoventi, che entrano un po’ in ritardo nella mia biblioteca grazie al dono di un amico. Mi piace descriverle, e contestualmente segnalare una recente, ottima antologia della H.D. ‘prima maniera’: Poesie imagiste di Hilda Doolittle, a cura di Giorgia Sensi (Interno Poesia editore 2021).
Passione giovanile e proprio mai dimenticata di Ezra Pound – il quale, dopo la morte di lei, tenne sempre una sua piccola fotografia nel portafoglio – Hilda Doolittle (1886-1961) non è nuova alla nostra editoria, non solo per la poesia ma anche per i suoi ‘tributi’ a Freud (di cui fu paziente e ‘collaboratrice’) e allo stesso Pound. Il suo nome è fra i più ricorrenti nell’indice di Novecento poetico americano, dove Caterina, fra tante altre cose, individua e esplora con grande delicatezza la ‘sorellanza’ spirituale quindi poetica fra H.D. e Mary de Rachewiltz: una intuizione, non solo critica, di cui la stessa Mary, la figlia di Pound, deve esserle grata (vedi la sua elegia Per Caterina Ricciardi: «Tu regni eburnea / con Hilda sul Circeo / in eterno custode / d’un castello ricolmo / d’anime gemelle e / delle loro opere», «Alias D» del 23 febbraio 2020).
Fra le dieci divae cui H.D. e la Ricciardi (talvolta liberamente) danno voce, spicca una Euridice molto arrabbiata con lo «spietato» Orfeo (il marito Richard Aldington? o D.H. Lawrence, altro suo mentore?) che anzi tempo s’è voltato a guardarla. Ma anche orgogliosa della propria riacquistata solitudine: «Almeno ho i fiori di me stessa, / e i miei pensieri, nessun Dio / può strapparmeli; // ho il mio fervore per presenza / e il mio spirito per luce; // e il mio spirito nella perdita / sa tutto questo; / anche se piccola sul nero, piccola sulle rocce informi, / l’inferno deve frangersi prima che io mi perda; // prima che io mi perda / l’inferno deve aprirsi come una rosa rossa / per far entrare i morti» (penso alla poesia di Browning in cui è Euridice stessa che chiede a Orfeo di voltarsi). Sulla pagina sinistra, Luisa Gardini introduce magnificamente il monologo d’ognuna di queste divine ‘eroidi’ (Demetra, Leda, Evadne, Fedra ecc.) con la sagoma morbida e sempre appena diversa di una coppia abbozzata con un pastello blu, mentre i brevi versi sono inquadrati da un tratto più sottile e deciso, perentoriamente verticale, dello stesso colore.
Affatto diversa la soluzione per accompagnare con altrettante immagini – ritagli di fotografie di sculture classiche, virate giallo senape – le dodici poesie di Mary Barnard (1909-2001), altra discepola di Pound. Il quale propiziò (con W.C. Williams) il suo esordio nell’importante collettanea Five Young American Poets (New Directions 1940) e, soprattutto, la spinse a studiare e tradurre i frammenti di Saffo – un’impresa da cui la Barnard avrebbe forse desistito se, per puro caso, all’inizio del lavoro non le fossero capitati in mano i Lirici greci di Quasimodo: così che ora, come la raccolta di Quasimodo, il suo Sappho, a New Translation è in stampa da più di mezzo secolo e continua a vendere. Evidentemente non è necessario, anzi sconsigliabile, aver succhiato il greco antico con il latte o invecchiare nelle biblioteche per produrre traduzioni vitali. La Barnard vi allude, direi, con la breve poesia Statico – «Volevo sentire / il riso di Saffo e il discorso della / sua valva incordata. // Ciò che udii fu / il baffoso borbotta- / mento dei grammatici: // pterodattili / e dodi vittoriani» – che, a sua volta, strizza l’occhio a I pedanti di W.B. Yeats: «Teste calve dimentiche dei loro peccati, / vecchie, dotte, rispettabili teste calve / editano ed annotano quei versi (…) / Signore Iddio, che direbbero mai / se s’imbattessero nel loro Catullo?» (trad. G. Melchiori).
Pound avrebbe voluto che Mary Barnard e H.D. si incontrassero non solo sulle pagine l’una dell’altra. L’incontro di persona non avvenne mai. Ma chissà che la Barnard non abbia almeno letto – quando fu pubblicato, postumo, nel 1982 – il breve saggio su Saffo che una giovane H.D. aveva scritto subito dopo la Grande Guerra, rivendicando un’immagine della poetessa greca ben più ‘forte’ di quella ereditata dall’Ottocento vittoriano: «Lei è invero un faro roccioso fermo in un mare azzurro. Lei è il mare stesso, un mare che frange e tortura, eppure non si frange mai. Lei è l’isola della perfezione artistica, dove l’amante della bellezza antica (naufragata nel mondo moderno), può ancora trovare attracco e prendere fiato, guadagnare coraggio per nuove avventure» (trad. C. Ricciardi in Novecento poetico, p. 132). È anche a queste «nuove avventure» che Il salto di Leucade di Mary Barnard sembra rimandare: «Tu, con gli occhi azzurri salini / e una tremula tempesta sotto giovani scafi / marchiati di corallo dal mare: // Tu gridassi Folle! quando saltò, / toccando con i piedi rigidi il fondo del verde / flutto rivestito da alghe sotto le rocce. // Il mare si crogiola in valli più profonde di queste; / tra continenti remoti vortica e annoda / reti inviluppanti i suoi conigli in canyon deserti. // Lascia la costa, lascia il fiume / ululante nella sua corsa al mare. / Trova la strada tra gli altri pini e / più in alto, sui ghiacciai– / non ne uscirai. La neve sarà / più bianca della schiuma sulle labbra, / più insipida e mite e più glaciale».