Visioni

Donne che parlano attraverso lo schermo

Donne che parlano attraverso lo schermo/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2015/02/13/taxi dir jafar panahi

La prima volta Cronaca di bordo nelle sale della kermesse tedesca, dove molti film sono declinati al femminile e le protagoniste vivono spesso storie difficili

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 14 febbraio 2015

I giorni passano, mi sto abituando alla civiltà discreta degli cittadini, alle previsioni affidabili di durate dei trasbordi, alla puntualità delle proiezioni, alle risoluzioni veloci con cui lo staff del festival risolve gli over booking. Un paio di sere sono riuscita a cucinarmi a casa un salutare basmati con verdure , dopo il lungo digiuno quotidiano placato solo da qualche anacardo e/o mango tagliato fresco comprato al supermercato. Qui il cibo mi sembra una cosa da mettersi alle spalle senza dare nell’occhio o un pretesto per stare insieme ad amici in baretti con luci decò, tavolini intarsiati, cornici dorate, tutto rigorosamente proveniente da mercatini dell’usato.

Le donne mangiano ma raramente le si incontra nell’atto di mangiare. Donne tutte eleganti, tutte diverse, tutte a loro modo belle. Sullo schermi in questi giorni, molti corpi femminili hanno attraversato le storie raccontate. I corpi scavati, scheletrici di Body, le cui sagome disegnate col pennarello su fondali bianchi sembrano fantasmi urlanti come piante assetate d’acqua. Corpi cui accadono cose in maniera quasi inconsapevole, gravidanze indesiderate, aborti indesiderati come in Petting zoo. Il corpo di Mark-Hana (Alba Rohrwacher) mistificato in quello di un uomo, costretto da una fascia ad annullare l’ultimo segno inequivocabile di una femminilità repressa. I corpi spogliati nella piscina il giorno delle gare di nuoto sincronizzato: corpi tatuati, segnati, rovinati, pelli seccate dagli anni e da eccessive esposizioni al sole, muscoli anabolizzati, corpi di ragazzine che ballano a tempo dentro l’acqua, ragazzi mulatti con riccioli indipendenti, lisce e sinuose braccia scivolanti fluide nelle corsie come delfini.

Questo personaggio silente in Vergine giurata (opera prima dell’unica italiana in concorso, Laura Bispuri) è una riflessione profonda sul genere: una ragazza albanese sceglie di rinnegare il suo essere donna, di fare cose da uomini, bere raki, usare il fucile, compiere riti prettamente maschili a patto della rinuncia della sua sessualità: «giuro di restare come Dio mi ha creata, vergine eterna». Perché viene chiesto ancora questo a una donna? Perché la femminilità porta con sé stereotipi legati alla debolezza, alla frivolezza, all’essere perdenti? Non va bene, non è più necessario in nessun caso, per società, legge, ignoranza. La protagonista del film lo capisce dolcemente, trasferendosi in Italia, sentendo nascere sani impulsi fisiologici e affettivi. La delicatezza con cui si fanno le cose è la più importante. E l’appropriarsi del proprio diritto di essere felici.

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