È uscita per Contrasto nella nuova traduzione di Matteo Martelli, finalmente con un nuovo titolo e introdotto da una prefazione della filosofa belga Vinciane Despret, Il manifesto delle specie compagne (la prima edizione inglese è del 2003) di Donna Haraway (pp. 128, euro 19.90), il secondo manifesto della filosofa statunitense dopo il più noto Manifesto cyborg (Feltrinelli, 1991). A rendere così atteso il libro, a lungo rimasto fuori catalogo dopo la prima edizione a cura di Roberto Marchesini (2003), è soprattutto il recupero ecofemminista del pensiero di Haraway che ha caratterizzato questi ultimi anni.

«Compagne» viene dal latino cum panis e rimanda al mangiare insieme alla stessa tavola, dunque l’essere co-implicate nella vita e nella morte, aspetto quest’ultimo messo ancora più in evidenza dalla figurazione del compost di Chthulucene (Not, 2019). Tradurre Manifesto delle specie compagne e non «dei compagni di specie» accentua la relazionalità fra le specie invece che le linee di demarcazione delle identità, presupposto del divenire-con harawaiano. La relazione precede infatti le vite comunicanti che divengono insieme significant others: espressione qui resa con «partner specifici», a sottolineare l’intimità e l’unicità della relazione interspecie, ma perdendo purtroppo la densa ambiguità dell’aggettivo inglese giocata sulla complessità sia materiale sia semiotica di ogni relazione.

LE DUE QUESTIONI principali da cui muove il testo, che affonda nel tempo lungo delle storie naturalculturali e della evoluzione «simbiogenetica» ma parte dall’interazione quotidiana, sono quelle poi sviluppate nel successivo libro When Species Meet (2008): come ridare priorità alle diverse storie del divenire insieme con altre specie, nei loro intrecci e conseguenze anche nefasti o letali, e come far sì che questo riguardo si trasformi in un obiettivo etico-politico condiviso di cura della vita in comune. I cani non funzionano qui come mezzi o surrogati della teoria, sono prima di tutto esseri con cui vivere, agenti capaci, aggrovigliati agli altri animali in matasse di relazioni parziali e situate fatte di robusto «filo di seta». A partire dalla relazione con le sue specie compagne, la «purosangue» Cayenne e il «meticcio» Roland, Haraway ripercorre allora le storie complesse dei cani da montagna dei Pirenei, dei pastori australiani, dei cani da guardiania, e anche dei «cani senza pedigree», «una categoria tutta per sé» nei cui corpi si addensano altrettante contraddizioni biopolitiche.

Va detto che questo libro presenta non pochi aspetti problematici, ampiamente dibattuti nel contesto dell’antispecismo e qui forse ancora più evidenti che altrove per la brevità del testo: le pratiche di allevamento e addestramento dei cani sono sviscerate in tutte le loro contraddizioni, ma mai condannate – non lo consente l’argomentazione logica rigorosissima, ma bisognerebbe interrogarsi su fino a che punto sia agli strumenti dell’argomentazione logica che serva ricorrere; e così anche lo sport della agility, che Haraway pratica con le sue specie compagne e di cui racconta i diversi approcci «disciplinari», senza ignorarne le complicità storiche con la gestione tayloristica ed eugenetica dei corpi animali, umani e non. Per Haraway, l’agility resta un terreno fertile in cui emerge la reciprocità del sintonizzarsi interspecie, e un esempio a partire dal quale criticare sia l’astrattezza dei discorsi sui diritti animali sia la visione proprietaria che li rende oggetti: critiche condivise entrambe dall’antispecismo militante attento alle differenze e alle loro intersezioni, con il quale però Haraway non si è mai riconosciuta.

È SOPRATTUTTO FRAGILE la considerazione dell’animale al lavoro, anzi dell’animale come lavoratore, che resta centrale nel pensiero di Haraway e va ricondotta al femminismo marxista da cui prende avvio la sua riflessione, pur se per allontanarsene. Perché se è vero che l’animale al lavoro è sempre un animale sfruttato, parlare di animale come lavoratore che nel lavoro afferma la propria capacità di agire, e dunque se stesso come individuo, rischia di occultare il fatto che le relazioni all’interno delle quali l’animale può farlo restano antropocentriche, alienanti per i lavoratori non umani come per quelli animalizzati.

Ciò detto, rileggere il Manifesto delle specie compagne oggi permette di comprendere molti degli sviluppi più recenti del pensiero della filosofa statunitense, e perché no, riconsiderare anche in una luce diversa le aperture animali del primo manifesto, chiuse troppo velocemente dalla sua lettura prevalente. Cyborg e specie compagne sono figurazioni «tutt’altro che antitetiche», anzi, sono esse stesse compagne accomunate da storie condivise, oltre che da un ibridismo sicuramente fastidioso per i «puri di cuori» e le loro categorie «sterilizzate».