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Donazioni, scavi, tutela e moda pompeiana a Palermo

Donazioni, scavi, tutela e moda pompeiana a PalermoPalermo, Palazzo dei Normanni, Sala Pompeiana

Dalla mostra al libro Palermo capitale del Regno a cura di Francesca Spatafora (Palermo University Press), affronta da vari punti di vista l’archeologia in Sicilia al tempo dei Borbone: sfatando il luogo comune che solo dopo l’Unità d’Italia l’isola avrebbe conosciuto la ricerca scientifica e un’efficace «tutela»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 14 luglio 2019

Nel 2018, l’anno in cui è stata la capitale italiana della cultura, Palermo ha visto succedersi numerosi eventi culturali. Fra questi, ha spiccato la mostra Palermo capitale del Regno. I Borbone e l’archeologia a Palermo, Napoli e Pompei, ospitata nel Museo Archeologico ‘Antonio Salinas’ e rimasta aperta fino a pochi giorni fa. A suggello e insieme a testimonianza duratura di quella ragguardevole impresa scientifica arriva ora un volume, dal medesimo titolo, curato per la Palermo University Press (collana «Artes») dalla responsabile della mostra e direttrice del Museo, Francesca Spatafora.
In apertura, un saggio di Daniele Palermo inquadra storicamente il non facile rapporto tra la Sicilia e i Borbone. Quando, dopo il congresso di Vienna, Palermo fu scelta a capitale del nuovo regno delle Due Sicilie, la città visse un momento di splendore; ma fu un privilegio che mantenne per un solo anno: già dal 1817 la capitale fu spostata a Napoli. La ferita inferta all’orgoglio isolano non si sarebbe mai rimarginata completamente, ma questo non impedì all’archeologia siciliana di conoscere positivi sviluppi. Già qualche anno prima, grazie alle donazioni di due appassionati collezionisti di antichità, Giuseppe Emanuele Ventimiglia, principe di Belmonte, e Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, era nato il Museo di Palermo, annesso alla Regia Università e allestito nella Casa dei Padri Teatini di San Giuseppe.
Un contributo di Francesca Spatafora mette a fuoco, con l’ausilio di preziosi documenti d’archivio, la temperie culturale «fortemente condizionata da quei sentimenti patriottici che, nel patrimonio storico e artistico della propria terra, riconoscevano le radici e l’identità di un popolo» nella quale prese vita la nuova istituzione. Dopo l’Unità d’Italia, il direttore Antonio Salinas avrebbe definito il suo museo «opera del nuovo Risorgimento politico d’Italia», ma allora fu chiaro che Palermo intendeva emulare Napoli, dove Ferdinando I aveva fondato, nel Palazzo degli Studi, il Museo Reale di Napoli.
Un acuminato saggio di Clemente Marconi sull’Archeologia in Sicilia al tempo dei Borbone sfata d’altra parte due idées reçues della storia degli studi, ovvero che l’archeologia scientifica sarebbe arrivata in Sicilia solo dopo l’Unità, e che prima di allora non ci sarebbero state né ricerche archeologiche sistematiche né una tutela efficace del patrimonio culturale. Le cose non stanno così: illuminante da questo punto di vista la figura davvero eccezionale di Domenico Lo Faso Pietrasanta, duca di Serradifalco, a lungo anima della Commissione di Antichità e Belle Arti in Sicilia – ora meglio nota grazie a documenti di archivio di recente pubblicazione – e autore di cinque sontuosi volumi su Le antichità siciliane esposte e illustrate (1835-’42), dedicati agli scavi dei maggiori siti antichi dell’isola, da ovest a est: Segesta, Selinunte, Agrigento, Siracusa, Acre, Catania, Taormina e Tindari. Attraverso la Commissione, Serradifalco si preoccupò anche – in anticipo sui suoi tempi – di conservazione e valorizzazione, predisponendo anche servizi permanenti di guardianìa.
A non molta distanza dalla sua fondazione, il museo di Palermo accrebbe le sue collezioni grazie alla munificenza dei Borbone. Francesco I, succeduto a Ferdinando I, donò nel 1825 numerose opere provenienti dagli scavi effettuati a Pompei tra il 1821 e il 1825, mentre nel 1831 Ferdinando II fece giungere a Palermo gli arredi della domus pompeiana di Sallustio e altri reperti dalla villa di Contrada Sora a Torre del Greco (sono le opere che costituivano il nucleo della mostra appena conclusa). Due saggi del volume – uno di Massimo Osanna, attuale direttore del Parco Archeologico di Pompei, l’altro di Laura D’Esposito e Francesco Muscolino, archeologi della stessa istituzione – ripercorrono sinteticamente la storia dell’esplorazione borbonica delle città sepolte dal Vesuvio, mentre i contributi di Rosanna Equizzi, Chiara Portale, Antonina Imboccari e Laura Toniolo analizzano in dettaglio le donazioni borboniche al museo di Palermo.
All’interno di un saggio di Cristina Polizzi sul Parco della Favorita, creato da Ferdinando IV all’epoca del suo esilio a Palermo, trova spazio la storia di un’altra statua donata alla città dai Borbone nel 1827: la Menade, allora creduta Pomona, dea dei frutti, che fino alla metà del secolo scorso adornava un viale del parco che da lei prendeva il nome. Nella mostra appena chiusa era lei che si incaricava di accogliere il visitatore.
Conclude il volume un pregevole saggio di Simone Rambaldi sul gusto «pompeiano» a Palermo tra Sette e Ottocento. È una ricerca originale, che esplora sistematicamente un tema fino ad oggi trattato solo in maniera rapsodica. Scopriamo così che sono davvero molti – e pregevoli – i monumenti palermitani interessati da quella moda che, diffusa dalle tavole delle Antichità di Ercolano Esposte (1757-1792), furoreggiò praticamente in tutta Europa.
Molti sono i meriti di questa pubblicazione, che per ironia esce proprio nel momento in cui la curatrice Francesca Spatafora, che dal 2013 ha profuso uno straordinario impegno nella rivitalizzazione del Museo ‘Antonio Salinas’, viene inopinatamente destinata ad altro incarico. Burocratici criteri di rotazione hanno prevalso sugli appelli della comunità scientifica internazionale a sostegno di una studiosa che aveva così ben meritato.

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