Donatello, confronti e ricezione per il grande proteiforme
Il titolo e la pioggia di manifesti, tappezzati qua e là in città, avranno anche fatto pensare a qualche visitatore di essere alle prese con l’ennesima mostra blockbuster. E invece la retrospettiva donatelliana a Palazzo Strozzi e al Bargello a Firenze – fino al 22 luglio, catalogo edito da Marsilio – è un’eccezionale iniziativa di ricerca, di quelle che resteranno nella storia degli studi; le indagini del curatore, Francesco Caglioti, hanno del resto già contribuito a orientare in maniera determinante l’immagine odierna di Donatello e della scultura del Quattrocento in Toscana.
Il taglio della mostra non è scontato. Con la sua proteiforme fantasia e la sua capacità di rinnovarsi sino all’ultimo, Donatello avrebbe infatti retto un’asciutta monografica, ove solo le sue opere avessero diritto di cittadinanza; nella stagione dell’idealismo sarebbe stata la scelta sicura e in fondo non avrebbe sorpreso poi tanto nell’odierno mercato delle mostre, segnato dalla ripresa non sempre consapevole di determinati schemi. Certo, nelle sale di Palazzo Strozzi il visitatore è invitato a interpretare l’artista seguendo innanzitutto il fil rouge della sua attività, presentata secondo una scansione grosso modo cronologica e geografica (da Firenze a Padova, a Siena, di nuovo a Firenze), con alcuni affondi tematici nelle prime sale (la scultura in terracotta; la genesi della moderna statuaria a tutto tondo; la restituzione dello spazio in scultura e in pittura; lo spiritello, chiave di lettura del rapporto con l’Antico).
Tale percorso basterebbe già di per sé a uscire dalla mostra con un’immagine nitida dello scultore, sempre pronto a cogliere le occasioni offertegli per sperimentare nuove strade, ma adattandosi con un’intelligenza rara ai contesti e alle diverse educazioni visive del pubblico. Solo la primissima fase della carriera risulta un po’ compressa: l’assenza di Ghiberti, che con la sua raffinata parlata gotica aveva sedotto lo scultore al tempo dei suoi vent’anni, accelera la transizione verso le opere della metà degli anni dieci, ormai segnate da un’originale autonomia e una maturità di linguaggio per quei tempi modernissimo; ma, alla lettura del catalogo, si intuisce quanto il racconto dei primi passi di Donatello sia stato complicato dai mancati prestiti del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze e del Museo di Orsanmichele.
Se lo svolgimento della vicenda dell’artista costituisce la colonna vertebrale, a illuminare le opere di Donatello da un angolo diverso e a mettere meglio a fuoco la portata radicale delle sue invenzioni intervengono anche i numerosi contemporanei, tanto scultori quanto pittori, che con lui si confrontarono e riuscirono talora a instaurare un dialogo serrato o, più spesso, ne finirono travolti. È questo un altro, notevolissimo risultato della mostra, sia sul versante della storia che su quello del metodo. Il novero dei pezzi chiamati a confronto è infatti tale da dilatare ampiamente la focale monografica e da consentire, in certe sale, di toccare con mano certi snodi della storia dell’arte a Firenze e a Padova. Ecco allora il sintetico Masaccio, che nel San Paolo di Pisa del 1426 scolpisce con pochi tocchi di tempera panneggi inamidati come quelli della Speranza donatelliana destinata al Battistero senese, di poco posteriore; o ancora il Bambino irrequieto e gaudente nel Paolo Uccello di Dublino, pronto a rompere le frontiere tra immagine e spettatore alla stregua dei bronzei Spiritelli portacero del Jacquemart-André, e a sgusciare così dalla presa della Madre per balzare tra le braccia del fedele. Diversa è l’atmosfera a Padova, ove pittori e scultori assimilarono avidamente motivi iconografici e, davanti all’esuberanza ornamentale della pala d’altare per Sant’Antonio, giubilarono come difficilmente si sarebbe fatto in Toscana; ma solo Mantegna fu in grado di cogliere appieno le novità più radicali e profonde del fiorentino.
In mostra tali idee sono espresse innanzitutto attraverso accostamenti calzanti, capaci di parlare di per sé; anche al pubblico non specialista vengono così dati i mezzi per giudicare di persona la legittimità delle idee proposte. Lungi dall’essere offerte in pasto come astratti capolavori senza tempo, le opere donatelliane vengono insomma calate nella storia e inserite in una fitta rete di rapporti: e allora, nello scorrere le prime sale, la memoria non può non correre indietro al 2002, alla piccola ma indimenticabile mostra orchestrata da Luciano Bellosi a San Giovanni Valdarno, ove la grandezza di Masaccio era dimostrata anche tramite confronti serrati con la produzione dei suoi contemporanei.
Delle due chiavi di lettura proposte a Palazzo Strozzi, quella della ricezione diviene dominante nella seconda sede della mostra, allestita al Bargello. È qui presa in considerazione una manciata di casi davvero esemplari per studiare l’onda lunga, lunghissima oltre più di un secolo di Donatello: tra tutti, il David mediceo in bronzo e la Madonna ‘Dudley’. Guardare il Quattrocento con gli occhi di Michelangelo significa allora far risaltare con chiarezza alcuni aspetti essenziali della ‘modernità’ di Donatello: il rapporto tra figura e cornice, il dialogo con lo spazio dell’osservatore – in una parola, la costruzione dell’autonomia della scultura rispetto alle altre arti. Al contempo, la giustapposizione di artisti di due età differenti mette implicitamente in evidenza come altri aspetti non meno geniali di Donatello, quale la sperimentazione incessante delle potenzialità dei materiali, venissero invece sacrificati dall’estetica normativa del Cinquecento e restassero così dimenticati per secoli: ad esempio, la Madonna ‘Piot’ del Louvre combinò terracotta, oro, cera e vetro in una stessa opera, ma non lasciò eredi reali e, percepita come eccentrica, finì secoli dopo per perdere materialmente alcuni dei suoi tratti spregiudicati, dalla doratura integrale alla cornice, essenziale per cogliere il corto circuito con lo spazio dello spettatore.
A visitare la mostra fiorentina, vengono allora a mente i lucidissimi precetti di metodo di un lontano ma cristallino articolo di Enrico Castelnuovo, secondo cui l’analisi della produzione non può prescindere da quella della ricezione: per guardare con occhi nuovi un artista del passato, per riuscire infine a vedere le zone lasciate in ombra dalla ricerca è necessario fare i conti con i condizionamenti dei tanti sguardi posatisi e sedimentatisi nel corso dei secoli. E questo Donatello sarebbe una bella occasione per riaprire il dibattito di metodo sulle regole minime del gioco da seguire nel concepire una monografia.
La mostra offre infine occasioni preziose per studiare opere e problemi puntuali. Il percorso mette infatti a disposizione dello storico dell’arte diversi pezzi di difficile lettura nel loro contesto di conservazione, in primis i bronzi padovani di Donatello, consentendo non solo di apprezzare pienamente la qualità del monumentale Crocifisso, ma anche di toccare con mano la parte degli assistenti ai quali il capobottega delegò sempre più la rinettatura, ben leggibile nel Miracolo della mula. La messa a fuoco dell’intera serie stilistica permette inoltre di riaprire alcuni problemi della filologia donatelliana, ad esempio il tasso di autografia del San Giovanni Battista di casa Martelli o la cronologia relativa delle Madonne in terracotta, purtroppo talvolta spellate della loro necessaria policromia – senza parlare di quelle frantumatesi nei disastri della guerra del 1945 e finite in chirurgia plastica. E numerose sono le aperture a snodi ancora più grandi. Tra tutti, l’ancora inafferrabile Brunelleschi scultore, che con Donatello fece sodalizio: se davvero è del 1410, il Crocifisso di Santa Maria Novella uscì già armato dal cervello della scultura e rende tanto più urgente la ricostruzione del catalogo del suo autore.
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