Protagonista di The Photo Solstice #5/ Le giornate della fotografia, ad Alghero, programma di eventi pubblici diretto da Franco Carta con la direzione artistica e la curatela di Marco Delogu, realizzato dalla Fondazione di Sardegna nell’ambito della piattaforma AR/S Arte Condivisa, Donald «Don» McCullin (Londra 1935, vive e lavora nel Somerset, Uk), tra i più grandi fotoreporter della nostra epoca, nel giugno scorso ha parlato del ruolo della fotografia di guerra durante il talk al Centro comunale d’arte il Ghetto di Cagliari. Sulle tracce della storia e dell’archeologia romana, sua passione più recente, McCullin ha proseguito il viaggio in Sardegna per fotografare l’area archeologica di Nora (Cagliari), Tharros (Oristano) e raggiungere l’antica Turris Libisonis (Sassari).

«La fotografia ha scelto me, non io la fotografia» è una sua frase ricorrente. Il suo destino sarebbe stato diverso – anche lei, forse, sarebbe stato tra quei giovani teppisti della periferia londinese qualche giorno dopo l’uccisione di un poliziotto – se il quotidiano «The Observer» non avesse pubblicato nel ’59 la sua foto della gang «The Guv’nors» (1958)?
Ho lasciato la scuola a 15 anni. Sono cresciuto in una zona molto difficile a nord di Londra, nella paura di quelle gang. Sì, il mio destino sarebbe stato completamente diverso se, proprio in fondo alla strada dove vivevo, non avessi fotografato quei ragazzi che erano stati coinvolti nell’uccisione di un poliziotto. La violenza era all’ordine del giorno. Con quella foto mi si aprì un nuovo mondo. Mi pagarono 50 sterline, una cifra enorme per un ragazzo come me. Mi sentivo come il primo uomo sulla luna ma allo stesso tempo cominciai ad essere bullizzato da quei ragazzi, invidiosi del mio successo. Mi sono dovuto difendere. Una volta dovetti dare le botte ad uno di loro, rompendogli la testa con una pietra. Lo guardavo compiaciuto mentre, all’ospedale, gli mettevano i punti. Mi son voluti quasi 65 anni per sradicare quella mentalità.

Don McCullin (ph. Manuela De Leonardis)

Quando nel ’58, durante il servizio di leva con la Raf nel Canale di Suez e in altri luoghi, prese in mano per la prima volta la macchina fotografica, le fu chiaro da subito che la fotografia sarebbe stata associata alla disciplina e al viaggio nella sua valenza di testimonianza anche al di là dell’inquadratura?
Dopo la pubblicazione di The Guv’nors ero molto felice ma mi rendevo anche conto di non sapere nulla di fotografia e giornalismo. Dovevo imparare rapidamente. Cominciai a guardare le riviste ed il lavoro di altri giovani fotografi, imparai anche a stampare in camera oscura. Ho sempre stampato da me le mie foto. Mi sento ancora uno studente che ogni giorno ha qualcosa da imparare. All’epoca lavoravo come freelance da due o tre anni per The Observer, dove mi pagavano poco ed io ero sposato con la mia prima moglie, quando un giorno dalla redazione mi fu proposto di andare a Cipro dove era scoppiata la guerra civile tra le comunità greca e turca. Quasi non ci credevo. Ero così eccitato! Era la mia prima esperienza come fotografo di guerra, però nel ’61 ero stato a Berlino per fotografare la costruzione del muro. La fotografia è stato un dono che ho accolto e la mia vita è cambiata. Non ho studiato, la mia famiglia viveva in povertà. Con mia madre, mio padre e mio fratello vivevamo in un appartamento di una stanza senza bagno. Questo è stato il mio punto di partenza, ma guardandomi indietro penso che quella sia stata proprio una grande università di umanità, sofferenza e dolore. Non dovevo far altro che osservare lucidamente.

Torniamo al 20 marzo 1964 a Ghaziveram (Cipro) dove ha fotografato in bianco e nero – linguaggio che caratterizza la sua fotografia – il dolore di una donna turca che piange il marito morto: con questa foto ha vinto il World Press Photo 1964. Tra le altre sue immagini più iconiche, molte delle quali realizzate per il «The Sunday Times», ci sono il bambino albino in Biafra (1969), il volto del marine sotto shock nella battaglia di Hue in Vietnam (1968), i corpi coperti dei civili palestinesi dopo il massacro di Sabra e Shatila (1982). Nel suo sguardo sulla morte e sulle tragedie si nota una sorta di «pietas», ma anche la necessità di scotomizzare il trauma di quando 13enne nell’umido seminterrato dove viveva con la sua famiglia, a Finsbury Park, vide il corpo di suo padre morto improvvisamente?
La foto del bambino albino africano è forse la più scioccante. Quel ragazzino di 9 anni con la scatoletta di carne che era stata ripulita mangiando anche la più piccola traccia non sarebbe mai sopravvissuto. Nell’edificio scolastico che chiamavano ospedale c’erano 700 bambini destinati alla morte che mi guardavano pensando che, essendo bianco, gli avrei dato del cibo. Ma l’unica cosa che avevo con me era la mia macchina fotografica. Ci sono voluti 25 anni prima che stampassi quella fotografia: non volevo che quegli occhi mi guardassero. Con i soldati la storia è diversa perché loro uccidono altre persone, i bambini non uccidono gli altri bambini. Quando ero a Cipro, essendo la prima guerra che coprivo, cercavo di comprendere minuto dopo minuto le reazioni umane, la sofferenza. Parlando di umanità, bisogna saper riconoscere gli elementi che hanno a che fare con la nostra esistenza. Quanto al soldato in Vietnam, il suo sguardo fisso è quello che viene chiamato «thousand yard stare» (sguardo da mille metri). Ho scattato cinque foto, lui non ha mai battuto una ciglia. È ancora vivo in America ma le sue condizioni mentali sono cattive. La guerra è sempre con lui, come, in un certo senso, è con me. Il suo ricordo non mi lascerà mai.

C’è un limite che si è mai posto nel raccontare l’«estetica» della guerra, della miseria e del dolore?
Le mie regole sono sempre state di non avere limiti, tranne che nel rispetto di fronte alla sofferenza, alla morte, soprattutto dei bambini. La guerra è una pazzia, possiamo solo cercare di fare del nostro meglio per darne un’interpretazione.

La paura e la rabbia sono sentimenti che ha colto spesso nelle sue fotografie. Lei stesso deve averle provate più volte, colpito da un proiettile e da un mortaio in Vietnam e Cambogia o quando è finito in una prigione in Uganda durante la dittatura di Idi Amin Dada…
In Uganda fui arrestato di notte insieme ad altri quattro giornalisti. Ci portarono nella prigione militare dove venivano rinchiusi e uccisi gli oppositori di Idi Amin Dada. Ci picchiarono. Ogni mattina i detenuti venivano colpiti fino alle morte. Per quattro giorni ho visto corpi buttati nel Nilo ai coccodrilli. Eravamo sicuri che non saremmo mai usciti di lì perché avevamo visto troppo. Sono stati i giorni più spaventosi della mia vita. Alla fine però, grazie alla British High Commission, siamo stati rilasciati. Potrei andare avanti con tante storie per quante sono le mie ferite. Anche questo fa parte del lavoro. Ricordo anche una volta, a Beirut, quando nella zona cristiana qualcuno mi mise al collo un nastro blu. Mi dissero che stavano andando a far fuori i ratti, intendendo i palestinesi di Beirut est. Erano soldati cristiani con la croce. Uno di loro mi disse di seguirlo e mi portò a un palo del telegrafo dove avevano tagliato a pezzi un gatto e lo avevano inchiodato lì. Se quella gente aveva potuto ridurre così un gatto, mi chiesi cos’avrebbe potuto fare a un essere umano. Quello stesso giorno, più tardi, lo vidi con i miei occhi. Avevano riunito uomini in gruppi di dieci, quindici, ragazzi dai 14 anni fino a uomini di sessant’anni. Gli sparavano uccidendoli in gruppo e poi cospargevano di benzina i loro corpi e gli davano fuoco. C’erano tanti falò in giro per la città. Mi sono più volte chiesto cosa abbia a che fare tutto ciò con la fotografia, ma soprattutto con l’umanità