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Don DeLillo, il buio oltre la tecnica

Don DeLillo, il buio oltre la tecnicaDon DeLillo nella sua casa a Westchester County, New York, 2010

Intervista Due coppie e un giovane fisico, in una Manhattan paralizzata dall’improvviso black out di ogni fonte energetica: «Il silenzio», da Einaudi. Lo scrittore americano parla del suo ultimo libro

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 31 gennaio 2021

Come sintomi che si riattivano sulla pagina, alcuni dei temi cari a Don DeLillo tornano a esplicitarsi, nel nuovo romanzo, in quanto portatori di un malessere diffuso: paura, minaccia, quotidianità intrisa di mistero, cascami tossici del capitalismo avanzato, che in Rumore bianco prendeva la forma di una enorme nuvola di veleni, e qui si traduce in un collasso tecnologico il cui esito finale è sintetizzato nel titolo: Il silenzio (traduzione di Federica Aceto, Einaudi, pp. 112, € 14,00).

Prima del black out, che mette ogni fonte di energia a tacere, due coppie destinate a incontrarsi di lì a poco, si arrabattano per passare il tempo, nella provvisorietà del luogo in cui si trovano: Jim, perito liquidatore presso una compagnia di assicurazioni, e sua moglie Tessa Berens, «un misto di ascendenze caraibiche, europee e asiatiche, autrice di poesie», stanno volando da Parigi a New York, dove li aspettano Max Stenner, ispezionatore di scantinati nei grattacieli, e Diane Lucas, sua moglie, ex professoressa di fisica.

Nell’appartamento di Manhattan dove saranno raggiunti dagli amici ancora in volo, è andato a trovarli l’ex allievo di Diane, anche lui un fisico, Martin Dekker, il personaggio sul quale DeLillo investe di più: lo descrive come un giovane allampanato, assente, perso nella ricapitolazione mentale del manoscritto di Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale, in oscillazione perpetua fra stati di trance e repentini ritorni alla concretezza quotidiana: «Cos’altro c’è? Mi devo fare la barba. Ecco cos’altro c’è».

Il realismo di DeLillo è perfettamente sintonizzato con l’incoerenza della vita, con l’entropia di gesti che sovrastano gli scopi verso i quali si dirigono: chi ha in mente il breve romanzo del 2003 titolato Cosmopolis, ricorderà la folle giornata dell’ultramiliardario Eric Packer, che all’interno della sua Limousine pavimentata con marmo di Carrara, gioca in borsa per sfidare la tenuta dello yen, mentre traversa una Manhattan paralizzata dal traffico all’unico scopo di andarsi a tagliare i capelli nella bottega dove andava suo padre.

Fra quelle pagine, ma già fin dall’esordio in Americana, e poi ancora in quel vecchio romanzo che si intitola La stella di Ratner (1976), DeLillo si era misurato con il proposito di investire i numeri di una loro speciale fisicità, renderli parlanti oltre i confini del loro mero servizio computazionale. «I numeri mi affascinano» – dice Dave Bell in Americana. «I numeri hanno potere».

Che si tratti di trascrizioni in codice di una eclissi lunare, di derivati della finanza, o di misurazioni di distanze, il problema è come rendere le cifre capaci di risuonare oltre la stretta referenzialità del dato: qui, fin dall’incipit, sugli schermi dell’aereo in volo da Parigi a Manhattan, Jim legge e Tessa prende nota: «Altitudine trentatremila e due piedi. Oh quanta precisione, – disse. – Température extérieure meno cinquantotto…» E, ancora: «Ora di arrivo sedici e trenta… Ora a Parigi venti e tredici. Altitudine trentaquattromila e due piedi. Gli piaceva l’idea dei due piedi. Una cosa decisamente degna di nota». Scendere nei dettagli di cifre altrimenti spoglie di evocatività – scrive DeLillo – «significava permettere a quegli indicatori di vivere per un po’, di essere ufficialmente, o volontariamente, osservati».

Quasi subito, tuttavia, l’esercizio è interrotto: l’aereo comincia a sobbalzare, le luci si spengono, ancora qualche sbandamento, un’ala prende fuoco, poi lo schianto dal basso. Dall’atterraggio di fortuna a Newark fino alla casa degli amici che li aspettano, Jim e Tessa percorrono una città oscurata, deserta, paralizzata dal blackout. Quanto è successo non sembra per ora accertabile, ma trattasi presumibilmente dello stesso fenomeno responsabile del tremolio sullo schermo che Max e Diana stanno fissando nella loro casa di Manhattan, in attesa del campionato di football americano: anche lì, qualcosa di diverso da una normale distorsione del segnale, «c’era un senso di profondità, forme astratte che si componevano per poi dissolversi secondo una cadenza ritmica… E poi a un certo punto lo schermo diventò nero».

A cosa sia dovuta questa implosione resta un enigma, nessuna spiegazione interverrà nel romanzo, se non quella affidata alle sagge parole di un personaggio minore, l’impiegata dell’aeroporto cui spetta lo smistamento dei passeggeri: «Più sono avanzati più sono vulnerabili», dice riferendosi ai sistemi informatici. Nulla di più consequenziale, nulla di più sinistramente scontato.

Il mistero, per DeLillo, non si annida là dove il nostro sguardo non arriva bensì tra le pareti domestiche delle nostre esistenze quotidiane, nella incomunicabilità dei nostri più reconditi pensieri. Finalmente, le due coppie si ricongiungono nell’appartamento di Manhattan, le conseguenze del blackout sull’aereo vengono raccontate dai due reduci ancora scossi, si azzardano congetture. Diane: «Forse il tempo ha fatto un balzo in avanti, come dice il nostro giovane amico?» E Martin. «Potrebbe essere il governo degli algoritmi. I cinesi… Hanno innescato un’apocalisse selettiva della rete. La partita: loro adesso la stanno guardando e noi no».

Scherzi, chiacchiere, ipotesi controfattuali: «Forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro» – scrive DeLillo, e muove le figure nella stanza come sagome alla ricerca di un senso. Ogni tanto lanciano sguardi allo schermo vuoto della Tv, poi se ne ritraggono. Pagina dopo pagina, nulla se non gratuite illazioni mimetiche della vacuità della vita, e poi nessuna pagina più, senza alcun preavviso: come risucchiato in se stesso, il romanzo implode, anch’esso svuotato di ogni residua energia.

Anche in questo romanzo troviamo alcuni dei suoi temi ricorrenti: la sensazione di essere sovrastati da una minaccia, la paura, Ie perversioni del capitalismo, le derive della tecnologia. Nessuna traccia, invece, di quella sorta di teologia delle armi e della spazzatura che trionfava tra le pagine di «Underworld». Come rivede il percorso che l’ha portata a immaginare questo blackout totale, questa forma di «Silenzio», appunto?
Quando penso ai libri che ho scritto negli anni, mi sembra che precipitino verso una situazione simile a quella in cui ci troviamo ora: la percezione di ritrovarsi rinchiusi, lo sconcerto di fronte alle strade vuote, un senso di claustrofobia generale derivato dal fatto che le persone si ritrovano a subire convivenze forzate, a stare insieme che lo desiderino o meno, stretti fra le pareti di casa, che lo vogliano o no. Lungo tutto il romanzo, il personaggio di Max aspira solo a seguire una partita di football americano, ma a causa della interruzione della corrente ciò che vede fissando la Tv è uno schermo vuoto. Così descrivo l’interruzione visuale del desiderio di assistere a qualcosa: non c’è più nulla da vedere. A un certo punto avevo pensato di titolare il romanzo Lo schermo vuoto, o Spazio e tempo.

Uno dei tratti distintivi della sua scrittura è la presenza di frasi brevissime, incisive, a volte apodittiche: in «Underworld» una di queste frasi dice: «Consuma e muori. E finisce tutto nella spazzatura». In «Cosmopolis»: «È il denaro a creare il tempo». Qui, nel «Silenzio»: «Prega e muori». Da dove le viene questa perentorietà?
Ha a che fare con il visualizzare le parole sulla pagina, intendo proprio il loro aspetto fisico. Ho una macchina da scrivere di seconda mano, che ha caratteri molto grandi: guardo alle lettere sulla pagina e trovo ci sia un nesso, un legame visuale tra le battute di una parola e le parole in una frase. È molto importante, per me, mi consente di immaginare un senso di prolungamento da quel che vedo alla macchina da scrivere e di nuovo alla mia mente. Anche lo spazio che occupano i personaggi nella mia visione della scena, se stanno in piedi o seduti, o se camminano ha un grande ruolo.

Penso che la sensazione visuale che mi deriva, per esempio, dalle strade vuote abbia sempre avuto molta importanza per me, e lo si vede in questo romanzo: il personaggio di Martin a un certo punto guarda dalla finestra e nulla accade là fuori. Quel che vede si estende, come non lo saprei spiegare, al mio modo di lavorare. È un po’ un enigma, suona tutto un po’ surreale, ma di fatto questo romanzo surreale lo è, specialmente alla fine, quando ciascun personaggio è impegnato in un suo proprio soliloquio, e sembra di stare in quelle vecchie pièces, dove vediamo scorrere tutto ciò che i personaggi stanno nominando.

Anche in Underworld le frasi più sincopate avevano per me un appeal estetico. Nella edizione di Scribner, il libro ha un bell’aspetto grazie alla grandezza dei caratteri, al rapporto tra il corpo delle lettere e lo spazio, sopra e sotto, che spegne la cupezza del segno tipografico. Naturalmente, non devono esserci troppe parole sulla pagina: questa attrattiva estetica del libro non è merito mio, bensì, appunto, del mio editore americano, che pubblica Hemingway, Fitzgerald… DeLillo! Tre sillabe per ognuno di questi nomi, Hem-ing-way, Fitz-ger-ald, De-Lil-lo, pronunciarle mi fa sentire bene!

Un certo effetto straniante comincia già dalla titolazione dei paragrafi in cui si divide la prima parte del libro…
Li intendevo semplicemente come dei sommari di quanto avviene dopo, anche se non necessariamente fatti degli stessi vocaboli. Per esempio, la titolazione Parole, frasi, numeri, distanza destinazione riassume la scena iniziale, nell’abitacolo dell’aereo, dove i due personaggi di Jim e Tessa guardano le informazioni che scorrono sugli schermi posizionati proprio sotto lo sportello dei bagagli a mano.

L’idea del romanzo, infatti, almeno in parte, mi è venuta durante un volo di ritorno da Parigi. Ero con mia moglie, mi sembrò interessante prendere nota e poi buttar giù più o meno quelle stesse informazioni che Tessa annota sul suo quaderno: appuntai l’altitudine, la temperature esterna, il tempo stimato per l’arrivo, la distanza dalla destinazione, e così via. L’unica differenza è che il volo raccontato nel romanzo termina con un atterraggio di fortuna, mentre nel mio andò tutto liscio. Arrivato a casa, cominciai a ricapitolare le cose, immaginai un collasso energetico generale, vedevo Jim e Tessa attraversare le strade deserte di Manhattan, dove tutto è spento, muto, nulla funziona più: è questo il cuore del romanzo. Allo stesso tempo, mi misi a consultare l’enorme manoscritto di Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale, e guardando quà e là nel libro mi vennero via via gli spunti narrativi che sarebbero andati a confluire nel personaggio di Martin, l’insegnante di fisica.

Martin è certamente il personaggio al quale si è dedicato di più, il giovane fisico strampalato cui mette in bocca le ipotesi più realistiche e le più inverosimili.
Sì, è un personaggio importante perché introduce questioni che non si limitano al suo campo, quello della fisica, ma investono problemi filosofici. A un certo punto lo vediamo fissare uno specchio e chiedersi se quella riflessa sia o meno la realtà. «La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe?… Cos’è che vedono gli altri quando camminano per strada e si guardano a vicenda? La stessa cosa che vedo io?» E così via. Martin è una sorta di figura immobile, intorno alla quale di tanto in tanto gli altri si muovono. Camminano, parlano e lui sempre là, seduto o in piedi: è un personaggio privo di azione, quasi assente di moto fisico, una sorta di soliloquio vivente. Il suo nome non l’ho trovato subito, ma per la verità a lungo non ho saputo come chiamare anche gli altri personaggi, eccetto Jim Kripps: il suo nome l’ho saputo fin dall’inizio, gli altri hanno fluttuato a lungo nella mia mente, finché finalmente mi sono deciso: Martin Dekker, Max Stenner, Tessa Berens. Ricordo che il nome di lei ha prodotto una sorta di miracolo istantaneo, appena l’ho pensato il suo personaggio è scivolato nella mia mente. Nonostante la sua brevità, questo romanzo mi è costato un grande impegno. Ho cominciato a scriverlo all’inizio del 2018 e l’ho finito non prima del marzo 2020, mi ci sono voluti più di due anni, eppure non sono molte pagine: ci sono state molte distrazioni, in mezzo, ma il fatto è che invecchiando non sono diventato più saggio, solo più lento.

Quale percezione ha del suo lavoro, a cinquant’anni da «Americana», il suo esordio romanzesco?
Le sensazioni che mi restano del mio lavoro sono molto generiche, tanti dettagli li ho dimenticati, per esempio i nomi dei personaggi, anche quelli dei libri più recenti li ricordo con difficoltà. Conservo piuttosto la sensazione di quel che provavo scrivendo ognuno di questi libri, ricordo dov’ero e quale livello di comprensione avessi di quanto andavo facendo, o come invece fallissi nel comprenderlo.

Guardando agli scaffali della libreria, non lontano da dove sono seduto adesso, vedo la sequenza dei miei libri, nelle prime edizioni americane, e in mezzo l’enorme volume di Underworld, che mi riporta ai cinque anni impiegati a scrivere il romanzo, un periodo piuttosto piacevole, nel quale ho fatto quel che speravo di fare, senza interferenze. Così, un giorno eccolo lì, quell’enorme volume, esteticamente molto bello nella edizione Scribner. Non ho rimpianti circa la mia vita da scrittore. Ho ottantaquattro anni, ho raggiunto quel che mi aspettavo da me, e sono ancora qui, in grado di parlare più o meno coerentemente dei miei libri con lei.

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