Dominique Méda: la sfida verde della democrazia
DOMINIQUE MÉDA Intervista alla sociologa e filosofa francese che partecipa oggi a Roma a un incontro sul «futuro del lavoro». «Tutti i cambiamenti rischiano di avvenire a scapito dei più poveri, mentre sono i ricchi che emettono la maggior parte dei gas serra»
DOMINIQUE MÉDA Intervista alla sociologa e filosofa francese che partecipa oggi a Roma a un incontro sul «futuro del lavoro». «Tutti i cambiamenti rischiano di avvenire a scapito dei più poveri, mentre sono i ricchi che emettono la maggior parte dei gas serra»
Un modello sociale ecologico liberato dalla mistica del prodotto interno lordo. Per coniugare la giustizia climatica con quella sociale occorre demercificare il lavoro, democratizzare la società, disinquinare il pianeta. L’alternativa è quella che abbiamo davanti agli occhi: democrazie senza politica né partecipazione che gestiscono in maniera tecnocratica o autoritaria una finzione ecologica. A questo progetto lavora la sociologa e filosofa francese Dominique Méda, autrice di libri importanti sull’ecologia politica e le trasformazioni del lavoro. Méda è tra i promotori di un «Manifesto del lavoro», pubblicato in Italia dal manifesto, che ha raccolto oltre 3 mila adesioni tra docenti, intellettuali e esponenti del mondo del lavoro. Da qui è nato il percorso del global forum democratizing work che, a inizio ottobre, ha visto la partecipazione di 387 persone, compreso chi scrive.
In Francia avrà sentito scandire lo slogan «La fine del mondo e la fine del mese, stessa lotta». Com’è possibile combinare la lotta contro il cambiamento climatico con le esigenze della giustizia sociale?
Stabilendo che la dimensione sociale è inseparabile dalla transizione ecologica. Se non saremo capaci di mettere questo rapporto al centro della politica lo faranno altri ma in maniera autoritaria. È essenziale, da un lato, coinvolgere i cittadini e i lavoratori in tutte le decisioni, in particolare sviluppando inchieste sociali per conoscere da vicino le condizioni di vita, le aspettative e i vincoli che affrontiamo, e, dall’altro, essere molto inventivi per mettere sempre le persone più modeste al centro delle nostre preoccupazioni. I cambiamenti rischiano di avvenire a scapito dei più poveri, mentre sono i più ricchi che emettono di più i gas serra.
In che modo si può intervenire?
Per quanto riguarda l’aumento dei prezzi, sono necessarie compensazioni e soprattutto alternative. Sull’occupazione, dobbiamo agire con largo anticipo, mappare i settori in pericolo e anticipare la riqualificazione professionale investendo molto denaro. Va ripensata l’agricoltura e la pianificazione regionale per riportare l’attività nel cuore delle piccole città, al fine di ridurre il pendolarismo. Ancora più in generale, dobbiamo sempre tenere presente che le emissioni di gas serra dei più ricchi sono quasi tre volte superiori a quelle dei più poveri. La lotta contro le disuguaglianze di reddito e ricchezza è senza dubbio la prima politica da attuare.
Nel piano di ripresa e resilienza (Pnrr) è il mercato, e non la società, l’attore chiave della crescita. Non siamo ancora usciti dal mondo in cui contava solo il Pil e la massimizzazione del valore per gli azionisti?
No. È affascinante vedere quanto il feticismo del Pil sia cresciuto dopo la crisi. Ci è dispiaciuto vedere la perdita di punti Pil. I nostri governi, in Italia e in Francia, stanno gridando di gioia per il ritorno della crescita, anche se sappiamo che dove aumenta il Pil, aumenta anche il pericolo… Oggi la convinzione della possibilità della crescita verde e del progresso tecnico ci permette di ignorare i danni della crescita. È molto difficile abbandonare questo feticcio, come ho spiegato nel mio libro La mistica della crescita. Sia chiaro: sono perfettamente consapevole che la crescita ha portato con sé infiniti benefici e che un declino non pianificato sarebbe catastrofico. Ma oggi dobbiamo riconoscere che la crescita ha portato con sé anche dei mali, soprattutto a partire dalla cosiddetta Grande Accelerazione, dal secondo dopoguerra, e che quella che viene chiamata crescita verde è un mito. Ora dobbiamo pensare in termini di post-crescita.
Fondi finanziari come Blackstone incoraggiano l’acquisto di azioni in aziende che investono nella conversione verde. Il Green Deal sarà un gigantesco greenwashing?
Sì, così sembra. In realtà, nessuno vuole cedere il proprio potere, rinunciare ai profitti futuri, tutti cercano di mantenere i propri vantaggi, soprattutto le aziende. Bisogna ammettere che rinunciare o cambiare direzione è estremamente complicato e pesante. Aspettiamo di vedere cosa fa il nostro vicino, non vogliamo andare da soli. Per questo gli Stati e le organizzazioni hanno un ruolo decisivo da svolgere: imporre nuovi standard, dimostrare che non è più nell’interesse delle imprese perdere tempo ma impegnarsi radicalmente in un nuovo percorso.
Nel «Manifesto del Lavoro» avete sostenuto che i lavoratori devono poter convalidare le decisioni dei rappresentanti degli azionisti attraverso meccanismi di co-decisione. Cosa significa e come farlo?
Oggi, anche per il lavoro degli economisti neoclassici, i sindacati appaiono ostacoli alla competitività delle imprese, protettori degli insider. Noi sosteniamo l’idea di ridare potere a chi vive del suo lavoro, passando la vita nelle imprese o cambiando posti di lavoro. Per farlo bisogna restituirgli la capacità di opporsi alle decisioni degli azionisti. Pensiamo che la cosa migliore sia che i sindacati esercitino questa funzione. Dobbiamo incoraggiare i lavoratori a unirsi e a partecipare pienamente alle decisioni, perché l’azienda non appartiene solo ai suoi azionisti.
Non è preferibile parlare di proprietà sociale delle imprese e dei mezzi di produzione?
Sì, questa è un’altra soluzione. Pensiamo che sia necessario diversificare la proprietà delle aziende. Abbiamo bisogno di aziende pubbliche, soprattutto nei settori strategici – il che non è un ostacolo a una forte rappresentanza dei lavoratori, al contrario. Abbiamo bisogno di più cooperative, dove l’azienda è di proprietà di tutti i membri. Nelle aziende private dobbiamo cambiare la governance e dare ai dipendenti e ai loro rappresentanti un potere equivalente a quello degli azionisti. Sia dando poteri decisionali e di veto ai consigli d’azienda composti esclusivamente da rappresentanti dei lavoratori, sia sviluppando la parità nei consigli d’amministrazione.
In questa prospettiva i lavoratori sarebbero capaci di decidere sulla scomparsa del proprio lavoro?
Questo è un vero problema. Nel «Manifesto» scriviamo che la democratizzazione delle imprese faciliterà la riconversione ecologica, soprattutto perché gli azionisti vivono spesso lontano dal luogo di lavoro e decidono i movimenti di lavoro solo in base alla redditività delle operazioni, mentre i dipendenti vivono spesso non lontano dalle aziende in cui lavorano e sono quindi spesso più direttamente interessati a ciò che le aziende producono. So che questo non è sempre il caso e che i dipendenti possono essere combattuti tra il desiderio di mantenere il loro lavoro e la necessità di proteggere l’ambiente. Ecco perché parliamo di demercificazione del lavoro e chiediamo l’introduzione di una garanzia che offra la possibilità ad ogni cittadino di ottenere un lavoro come proposto dall’associazione britannica One Million Climate Jobs: un servizio pubblico per il clima che si farebbe carico dei lavoratori dei settori minacciati, garantendone la retribuzione e la formazione per sostituirli in lavori favorevoli alla transizione ecologica. La riconversione non dovrebbe danneggiare i lavoratori, come purtroppo è sempre successo, per esempio nella crisi del tessile o dell’acciaio in Europa.
Un reddito di base potrebbe impedire di lavorare con una paga da fame?
Resto scettica sull’idea di un reddito universale. Temo che sarebbe una versione molto liberale che verrebbe utilizzata per giustificare le violazioni del nostro sistema di protezione sociale o l’abolizione delle norme che regolano il lavoro (come il salario minimo, per esempio). Non vedo il senso di pagare a tutti un reddito, parte del quale sarà poi recuperato dai più ricchi. Invece il pagamento automatico di un reddito, dall’età di 18 anni, al di sotto di una certa soglia di reddito di attività mi sembra interessante, se è accoppiato con una riforma fiscale.
Lei ha criticato la moderazione salariale e ha chiesto una ridistribuzione della ricchezza. Cosa impedisce alla sinistra di essere credibile su questi temi?
La socialdemocrazia europea è stata spazzata via dall’onda del neoliberismo. Ricorda il «Manifesto» di Blair e Schröder? Ho avuto la fortuna di partecipare al «summit dei modernizzatori della sinistra» a Firenze nel 1999, che comprendeva Tony Blair, Gerhard Schröder, Bill Clinton, Massimo D’Alema e Lionel Jospin. Quest’ultimo, che era in procinto di attuare leggi per ridurre l’orario di lavoro, era molto solo… Spero che la sinistra in tutta Europa e nel mondo possa aggiornarsi, rompa con il Washington Consensus e promuova un modello sociale ecologico.
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Oggi alle 18,30 a Roma la sociologa e filosofa Dominique Méda parteciperà con Alain Supiot e Ota De Leonardis al dialogo sul «futuro del lavoro» promosso dall’Institut Français Italia a Palazzo Farnese (piazza Farnese 67). Méda insegna all’Université Paris-Dauphine, e ha scritto tra l’altro «La mystique de la croissance» (2013) e «Le Manifeste Travail: Démocratiser. Démarchandiser. Dépolluer» (2021) con Isabel Ferreras e Julie Battilana.
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