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Dominique Cabrera, la follia di vivere

Dominique Cabrera, la follia di vivere"Corniche Kennedy" (sarà distribuito in estate da Kitchen Film)

Festival Al Bergamo Film Meeting la personale di una regista che nasce come documentarista e porta il suo sguardo complice nei film di finzione

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 11 marzo 2017

>Definire il cinema di un cineasta è sempre un esercizio rischioso. Lo è particolarmente nel caso di Dominique Cabrera, che aggiunge film a film, ognuno diverso dagli altri. Perlomeno in apparenza, dal momento che la trama della sua opera è intessuta di molti fili rossi, che è appassionante districare. Dominique Cabrera è: una poesia singolare, una generosità dello sguardo, una rara predisposizione a instaurare la fiducia, un’opera intima, in cui agiscono costanti interrogativi sociali. Tutto questo, indipendentemente dalla forma adottata: documentario, fiction o una loro ibridazione. Perché Dominique Cabrera, che scopre la 7a arte coi Charlot proposti a noleggio nel negozio di fotografo del padre in Algeria, poi con i classici del Cinéma de minuit un tempo trasmessi su France 2, non si trincera dietro «un» cinema. Da ragazza, quando tenta e supera il concorso dell’IDHEC (poi diventato FEMIS), non ha ancora la passione per il documentario. Sarà l’incontro coi film del canadese Pierre Perrault, pilastro del cinema moderno del Québec, a suscitare in lei l’ossessione di «far sgorgare una parola vissuta».
Dominique Cabrera muove quindi i suoi primi passi da cineasta nel documentario. Un esordio che rivela soprattutto un approccio al mezzo apertamente militante, che non l’abbandonerà più. Il titolo del suo primo cortometraggio, J’ai droit à la parole (1981), in cui filma gli abitanti di un quartiere di transito a Colombes, è quasi profetico: dà voce e spazio a coloro che solitamente non udiamo e non vediamo. Ci mostra anche dei luoghi resi invisibili, perché giudicati non fotogenici, e perché ancor oggi ravvivano puntualmente una cattiva coscienza francese: la banlieue, con i suoi casermoni mal tenuti e le sue popolazioni meticciate, i suoi salari miseri, le sue speranze, le sue rabbie.
C’ERA UNA VOLTA LA BANLIEUE…
«J’ai droit à la parole», ma anche Chronique d’une banlieue ordinaire (1992), Une poste à La Courneuve (1994), Un balcon au Val Fourré (1990), Réjane dans la tour (1993) e Rêves de ville (1993): sei film usciti nuovamente quest’anno in un cofanetto battezzato «Il était une fois la banlieue» (C’era una volta la banlieue) e profondamente sconcertanti a vedersi oggi, quando la paura dell’altro (un «altro» che molto spesso abita nella banlieue, quando non viene dall’estero) inquina il dibattito sulle elezioni presidenziali che si terranno ad aprile. (…)
Che la parola appaia così libera e naturale nei suoi film documentari è il risultato di un lungo lavoro effettuato prima delle riprese. (…) Lo stesso metodo viene applicato anche ai film di fiction, come Corniche Kennedy (2016), cronaca adolescente e mediterranea, una banda di ragazzi che avremmo potuto incontrare nei suoi film, (…) ma la luce che li investe è, questa volta, solare: siamo a Marsiglia, ai piedi di un quartiere di ville di lusso in cui Marco e Mehdi (Kamel Kadri e Alain Demaria), gli eroi del film, non hanno mai messo piede, ma da cui proviene Suzanne (Lola Créton). Invece di studiare per la maturità, la ragazza osserva i due ragazzi e la loro banda che ogni giorno rimettono in gioco la propria vita gettandosi dall’alto di una scogliera. La loro libertà è contagiosa e Suzanne vuole essere dei loro, a costo di voltare le spalle ai suoi. (…)
LA VITA COME ERRANZA
Di personaggi accesi, se ne incontrano molti in Dominique Cabrera. A cominciare dalla tragicommedia Folle embellie (2004). Nel giugno del 1940, mentre sulla Francia piovono bombe, un ospedale psichiatrico viene abbandonato dal personale. Lasciati a se stessi, i pazienti (Jean-Pierre Léaud, Miou-Miou, Yolande Moreau, Marilyne Canto, Olivier Gourmet) scappano dall’istituto e trovano rifugio nella natura, felici di questa nuova libertà. La regista ci interroga: bisogna essere pazzi per vedere la bellezza dentro l’orrore? Questa visione della vita come erranza, quasi come caotica odissea, è un motivo ricorrente nel cinema di Dominique Cabrera, in cui spesso c’è un personaggio – a volte la regista stessa – che cerca o che si cerca. Così in Le lait de la tendresse humaine, scritto con Cécile Vargaftig (selezionato dal Festival di Locarno nel 2001 dove riceve una Menzione speciale per l’interpretazione collettiva), Christelle (Marilyne Canto) si rivela improvvisamente incapace di accudire al suo neonato, addirittura di chiamarlo per nome (…)
OSARE DIRE «IO»
Il 1° gennaio 1995, Dominique Cabrera si munisce di videocamera e cattura, per i nove mesi che seguono, dei frammenti della sua quotidianità: pranzi in famiglia, chiacchierate con suo figlio o col suo ex compagno, momenti trascorsi col suo nuovo amante… Ma anche interrogativi esistenziali e dolorosi esposti di fronte allo specchio o all’obiettivo – in particolare quel «sono una buona madre?» che ritroveremo nel 2001 in Le lait de la tendresse humaine. Posta tra la cineasta e il suo mondo, la videocamera diventa strumento di protezione quanto di indagine.
Inquadrata o presente tramite voce fuori campo, Dominique Cabrera consegna frontalmente allo spettatore la sua depressione (insonnie, pensieri morbosi, bulimia…), ma anche le sue gioie (essere innamorata, circondata di affetti, fiera del figlio…). Un esercizio che naturalmente è per la cineasta un modo di riordinare il caos della sua vita, di dare un senso alla sua esistenza: per evitare di sprofondare, ciascuno risponde coi suoi strumenti. Ma Demain et encore demain non è solo un film terapeutico. È un bellissimo film e basta, che cattura con misurata sensibilità degli interrogativi universali – «Cos’è la felicità? Un uomo che ti porta delle stelle alpine da Roma?» – ma anche gli interrogativi di un’epoca in preda alla crescita del razzismo e dell’estrema destra, insieme al sentire di una casta della popolazione la cui voce si sente troppo poco al cinema. Infatti, filmando la propria famiglia, Dominique Cabrera si radica in un territorio geografico – i pied-noir, sistemati nella banlieue di Parigi nel 1962 al momento dell’indipendenza dell’Algeria – e sociale, quello delle classi popolari. Ed ecco le lunghe discussioni a cui tutti partecipano sul futuro del figlio della regista: è meglio acconsentire al suo desiderio di iscriversi, come i suoi amici, alla scuola media del quartiere ben poco quotata, o mandarlo altrove, lontano, in un istituto di eccellenza in cui rischierà di sentirsi solo e diverso?
LA MACCHINA DA PRESA MILITANTE
Osando dire «io», Dominique Cabrera si mette non solo alla portata delle persone che filma e degli spettatori cui si rivolge, ma al loro livello. E con quell’«io», si fa carico del ricorrere di certi temi, a cominciare da quelli della memoria e dell’esilio. L’indagine sul divenire della comunità pied-noir inizia col cortometraggio Ici, là-bas (1988), nel quale Dominique Cabrera chiede a sua madre dei suoi ricordi dell’Algeria, poi nel mediometraggio Rester là-bas (1992), sui pied-noir che nel 1962 hanno rifiutato di lasciare il paese. Due film che sollevano una serie di interrogativi – cosa intendiamo per «casa nostra», il nostro paese, qual è la nostra eredità e come accettarla? Gli stessi che ritroviamo in L’autre côté de la mer, il suo primo lungometraggio di fiction (presentato a Cannes nel 1997 nella sezione Cinéma en France). Come si è capito, il cinema di Dominique Cabrera è politico nel suo difendere una visione – umanista – del mondo. La cineasta non esita a darsi, letteralmente, in prima persona quando mette in scena e filma i suoi. E quando dirige l’obiettivo all’esterno del suo clan, è per difendere gli stessi valori di uguaglianza e fraternità, come accade nello sconcertante Nadia et les hippopotames (selezionato a Cannes nel 2000 nella sezione Un Certain Regard). Nadia, una giovane emarginata (Ariane Ascaride), cerca il padre del suo bambino tra i ferrovieri in sciopero. Filmato a distanza ravvicinata da volti e corpi, con attori professionisti (Marilyne Canto, Thierry Frémont, Olivier Gourmet) e ferrovieri «veri», il film propone chiaramente un altro sguardo sul mondo rispetto a quello indotto dal capitalismo. (…)

L’autrice, Pamela Pianezza, Critica cinematografica e fotografa, lavora per Cine+, «La Septième Obsession», «Variety». Pubblichiamo stralci del suo saggio dal catalogo del BFM

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