Domingo Villar, il mistero galiziano magico e criminale
L'intervista Parla l’autore di «L’ultimo traghetto», edito da Ponte alle Grazie. La scomparsa di una giovane donna è lo spunto per un’indagine sul mondo perduto della Ría di Vigo. Frontiera geografica e culturale, la regione del nordovest spagnolo si è trasformata nella terra d’elezione del noir
L'intervista Parla l’autore di «L’ultimo traghetto», edito da Ponte alle Grazie. La scomparsa di una giovane donna è lo spunto per un’indagine sul mondo perduto della Ría di Vigo. Frontiera geografica e culturale, la regione del nordovest spagnolo si è trasformata nella terra d’elezione del noir
Monica Andrade è scomparsa dalla sua casa di Tirán, un antico borgo di pescatori separato da meno di un miglio marino dal centro di Vigo, una delle maggiori città della Galizia. La zona è parte delle Rías Baixas, le coste incerte e frastagliate della regione dell’estremo nordovest spagnolo. L’indagine è affidata all’ispettore Leo Caldas, un galiziano melanconico e sognatore che insieme al suo assistente Rafa Estévez, che arriva invece dall’Andalusia e al clima ventoso e imprevedibile del posto non si è mai veramente abituato, finirà non solo per fare luce sull’accaduto, ma per raccontare una nuova pagina di questa realtà di frontiera dove la forza della natura, il mistero del mare e i segreti degli esseri umani sono destinati a intrecciarsi in modo inestricabile.
Arrivato a quasi dieci anni di distanza dai precedenti – Occhi di acqua e La spiaggia degli affogati – L’ultimo traghetto (Ponte alle Grazie, pp. 634, euro 18, 50, traduzione di Silvia Sichel) non conferma solo le straordinarie doti di narratore di Domingo Villar, autore anche per il teatro e il cinema che in Spagna è stato spesso paragonato a Camilleri e a Vásquez Montalbán, ma anche la caratteristica di laboratorio per la scrittura che la Galizia è andata assumendo negli ultimi anni. Specie per il noir.
Nativo di Vigo ma da molti anni a Madrid, Villar che scrive i suoi romanzi allo stesso tempo in galiziano e in castigliano, è il cantore del mondo perduto che vive lungo l’estuario di Vigo, figure di marginali e di sconfitti dei quali il detective Caldas rintraccia le storie e spesso l’umanità dimenticata o nascosta.
La stampa spagnola ha fatto osservare che i suoi romanzi sembrano costruire, indagine dopo indagine, una saga noir, ma al tempo stesso una sorta di canzone d’amore dedicata alla Galizia.
Penso che siano entrambe le cose: dei romanzi polizieschi all’esterno e delle storie d’amore per la mia terra dentro. Uno scrittore di Siviglia, Juan Ramón Biedma, sostiene che la trama di un noir è come un’acceleratore schiacciato che spinge la storia: raccontare un’indagine criminale è un po’ come prendere il lettore all’amo e guidarlo lungo un percorso nel quale porti il suo sguardo dove ti interessa che si posi. La trama non è perciò una semplice scusa, anche se quello che mi sta più a cuore è dove riuscirò a portare l’attenzione di chi legge, su quali temi, atmosfere, luoghi e personalità. Così, L’ultimo traghetto racconta una scomparsa e l’indagine che ne fa seguito, ma parla anche di paternità, compassione, diversità… E, soprattutto, di un mondo che sembra finire, scomparso o che vogliono farci credere che non esista più.
Anche in questo romanzo, come nei precedenti, la città di Vigo, la fa da protagonista. È il personaggio principale dei suoi libri?
Non so se si tratti davvero del protagonista, ma di «uno» dei protagonisti senza dubbio. E parlo della Vigo reale come di quella perduta: un ricordo che non possiedo anche se frugo nella mia memoria. Le case a forma di nave costruite lungo la Ría che descrivo nel libro non ci sono più da alcuni decenni. Detto questo, Vigo non è solo il luogo da cui provengo, ma è anche quello in cui torno ogni volta che mi siedo al computer per scrivere una storia. Parte del meccanismo che muove la mia scrittura è la nostalgia, e un buon modo per combatterla è collocare l’azione di quanto racconto a Vigo.
«L’ultimo traghetto» offre due immagini della città: l’antica Scuola di Arti e Mestieri che ha sfornato generazioni di artigiani e Tirán, un piccolo borgo di qualche migliaio di abitanti che si trova proprio di fronte a Vigo. Cosa rappresentano per lei?
Direi una specie di mondo perduto: sono entrambe delle isole di pace. La scuola è un luogo che la stragrande maggioranza degli abitanti di Vigo non conosce. Qui si insegna alle persone che vogliono dedicarsi a un mestiere a lavorare con amore e con tutto il tempo necessario. Non proprio una cosa abituale oggi. Tirán è invece una lingua verde che sorge di fronte alla città, con spiagge dalle onde dolci, dove si può ascoltare il richiamo degli uccelli e dove vengono a mangiare i mammiferi marini che vivono negli estuari. E tutto questo a soli due chilometri da distanza da una città di oltre 300mila abitanti. Qui Monica, la donna scomparsa del romanzo, cerca il suo rifugio, e io di tanto in tanto scappo quando voglio la tranquillità.
Le Ría, l’estuario di Vigo, lo spazio indefinito in cui il mare si insinua quasi dentro la città sembra anche un contesto naturale particolarmente adatto al mistero come ad ogni sorta di traffico.
In effetti, se qualcuno dovesse immaginare uno scenario adatto ad un romanzo poliziesco, potrebbe probabilmente pensare ad una zona dal profilo sinuoso, una costa piena di calette nascoste e piccole isole che separano un tranquillo estuario dal mare aperto. Il tutto proprio accanto ad un porto gigantesco dove può entrare qualsiasi tipo merce e a pochi chilometri da un confine nazionale, quello con il Portogallo. Devo riconoscerlo, è l’ambiente ideale. E non solo perché si tratta di quello di cui scrivo.
Per questo l’immagine della Galizia, anche attraverso romanzi e film, è stata sempre più spesso affiancata a quella del narcotraffico cresciuto nella regione fin dagli anni Novanta?
La Galizia ha più chilometri di costa dell’Andalusia, anche se non sembra. E il contrabbando, già prima del narcotraffico, è una realtà con cui abbiamo convissuto da sempre nelle Rías Bajas dove non arrivavano solo i frutti di mare per i quali la zona è così famosa… Perciò, è vero che c’è il rischio di sublimare il ruolo dei criminali e di finire per trasformarli quasi in eroi, ma non c’è dubbio che per uno scrittore si tratti di un contesto molto attraente.
Negli ultimi decenni la regione è stata definita e raccontata in molti modi. C’è questa sorta di «romanzo criminale» alimentato dalle azioni dei narcos, la riscoperta delle «radici celtiche» locali che guarda all’Irlanda ed è alla base di festival e eventi musicali, infine le spinte indipendentiste simili a quanto accade in Catalogna e in Euskadi. Come definirebbe, invece, la «sua» Galizia?
Effettivamente la Galizia è tutto questo, ma è anche il mio «paradiso perduto», il luogo in cui sono nato e cresciuto e in cui ritorno ogni volta che scrivo. Lì la vita scorre più lenta che a Madrid, dove vivo. I galiziani sono allo stesso tempo razionalisti e credenti, scettici e magici, abbiamo un rapporto intimo con la nostra terra, con la sua gastronomia, con il suo paesaggio verde e con la sua musica. A Vigo ci sono due tratti che accomunano tutte le famiglie: l’emigrazione e l’oceano. In tutte le case c’è qualcuno che è emigrato in cerca di un futuro migliore e qualcuno che vive grazie al mare.
Quasi dieci anni separano questo romanzo dal precedente. La perdita di suo padre, avvenuta nel frattempo, l’aveva spinta ad abbandonare il progetto?
Ricordo che quando Paul Auster ha ricevuto il Premio Principe delle Asturie per la letteratura nel suo discorso di ringraziamento ha detto che sapeva quando scriveva bene per ragioni più musicali che letterarie. Parlava di qualcosa che anch’io conoscevo bene: cercando una certa musicalità nella trama avevo sempre letto ciò che scrivevo a mio padre. Dopo la sua scomparsa a lungo non avevo più niente da scrivere e soprattutto nessuno a cui leggerlo.
«Vivir sin permiso», tra fiction e realtà
Regione di frontiera, non solo geografica ma sempre più spesso anche culturale, la Galizia si è trasformata nell’ultimo decennio in una delle maggiori fucine del noir spagnolo. Dopo che dagli anni ’90 il tradizionale contrabbando è stato soppiantato dallo sviluppo del circuito dei narcos, il «romanzo criminale» si è imposto come forma narrativa. Se il giornalista Nacho Carretero ha raccontato in «Fariña» (Bompiani) il volto della mala gallega, autori come Domingo Villar, Pedro Feijoó, Manel Loureiro, Francisco Naria, Beto Luaces, Ledicia Costas, Alicia Borrás, Elena Gallego Abad, Manuel Esteban, Daniel Cid ne hanno tracciato il profilo in racconti e romanzi. In particolare a Vigo questo filone narrativo è talmente ampio che la Xunta della Galizia ha voluto che fosse riconosciuto con una specifica denominazione nelle biblioteche regionali. Del resto, anche uno dei maggiori autori spagnoli contemporanei, Manuel Rivas, nato a La Coruña, ha dedicato al tema la raccolta «Vivir sin permiso» da cui è stata tratta l’omonima serie di Netflix.
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