Cultura

Dolores Prato, il romanzo inconcluso di una fuoriclasse

Dolores Prato, il romanzo inconcluso di una fuoriclasseDolores Prato

Narrativa italiana Esce «Educandato», per Quodlibet Storie, ottimamente curato da Elena Frontaloni, il cui titolo originario non si è mai conosciuto. Inedito e mai finito, doveva far parte di un ciclo autobiografico suddiviso in cinque parti, inaugurato da «Giù la piazza non c’è nessuno», che apparve integralmente postumo da Mondadori soltanto nel 1997

Pubblicato più di un anno faEdizione del 22 aprile 2023

La casa editrice Quodlibet continua nella sistematica opera di divulgazione e valorizzazione della figura di Dolores Prato (1892-1983), il cui caso letterario si impose nel 1980 quando Einaudi pubblicò Giù la piazza non c’è nessuno in una versione tagliata e assemblata da Natalia Ginzburg che non incontrò l’approvazione della diretta interessata, quasi novantenne.
Il romanzo, di taglio autobiografico, rievoca l’infanzia della scrittrice a Treia, borgo marchigiano dove era stata affidata allo zio prete Zizì e alla zia nubile Paolina, dopo l’abbandono della madre. Nata da padre ignoto, la bambina divenne in seguito educanda presso il collegio annesso al monastero di Santa Chiara, sempre a Treia. Si ricordino en passant anche gli altri titoli stampati dall’editore maceratese: Scottature (1996), Giù la piazza non c’è nessuno (2009), Sogni (2010), Roma, non altro (2022) che vanno ad integrare Le ore e Campane a Sangiocondo, editi rispettivamente da Scheiwiller (poi Adelphi) e Avagliano.

LE VICISSITUDINI scaturite dall’esperienza in collegio si possono ora leggere in Educandato («Quodlibet Storie», pp. 272, euro 18), ottimamente curato da Elena Frontaloni, il cui titolo originario non si è mai conosciuto. Questo romanzo inedito e incompiuto (la scrittrice non amava la definizione per generi) doveva far parte di un ciclo autobiografico suddiviso in cinque parti, inaugurato proprio da Giù la piazza non c’è nessuno, che apparve integralmente postumo da Mondadori soltanto nel 1997, a cura di un ammiratissimo Giorgio Zampa. Il testo, «antilineare e rizomatico» secondo la curatrice, era stato concepito come seguito di quel romanzo sui generis, contrapponendo all’infanzia, lì magistralmente trattata, l’adolescenza condivisa con un nucleo circoscritto di coetanee, tra cui quelle preferite dalla Madrina per motivi di ascendenza nobiliare. La narrazione si interrompe bruscamente a causa delle mutate condizioni di salute dell’autrice che confessò a un’amica, a proposito di questo bildungsroman: «Il disastro vero lo fece il collegio. Su quello io sparerò».

NONOSTANTE LO STILE risenta, qua e là, di certa inevitabile approssimazione, dovuta a una revisione non abbastanza accurata delle singole lasse, come venivano chiamati i paragrafi allestiti, esistono tuttavia passaggi in cui la parola di Dolores Prato si manifesta in tutto il suo splendore, con uno smalto che sembra scaturire, come per incanto, dalle terrecotte invetriate policrome dei Della Robbia. L’ékphrasis riguardante alcune fotografie nonché la riflessione circostanziata sulle divergenze linguistiche che contrassegnano vita di paese e vita di collegio (pignatte/pentole, scrittoi/scrivanie, sale da pranzo/refettori ecc.) tendono a costituire due forme di koinè contrapposte, tese a marchiare a fuoco non solo infanzia e adolescenza.
Lo stesso accesso in collegio, con i suoi ambienti spaziosi e stranianti (si veda la descrizione del corridoio soprannominato «Galleria linea-di-mare»), è vissuto alla stregua di una seconda nascita.
La fine dell’infanzia è rappresentata dalla rottura del pettine («Non potevo più essere quella che ancora non aveva spezzato il pettine») con cui la zia ravviava i capelli a Dolores senza tuttavia sciogliere i nodi che si formavano in profondità, operazione che riuscirà invece benissimo a una compagna di collegio. Il meticoloso inventario degli oggetti (la brocca di foggia antiquata regalata dallo zio sarà rivalutata in seguito, osservando le nature morte di Morandi) costituisce una sorta di transfert che l’autrice adopera al fine di integrarsi in un mondo che non comprende, anteponendo alla cooperazione lo smacco spietato della competizione.

SI CONFRONTINO al riguardo le descrizioni del collegio, di questo edificio labirintico che ricorda i cauchemars piranesiani (definito dalla curatrice «squilibrata architettura»), laddove il gruppo di educande, capitanate dalla Madrina, si trova a convivere con le presenze fantasmagoriche delle visitandine. Prato si sofferma a tratteggiare i luoghi di questa particolarissima topografia dalle valenze metafisiche, contrassegnandoli con le iniziali in maiuscolo: Parlatorio, Dormitorio, Coretti, Giardino ecc.
La crudeltà con cui si cadenzano i rapporti, soprattutto tra Madrina e narratrice ma anche tra coetanee, è ben resa dal passaggio di questa lettera: «In un convento la morte può arrivare a colpi di spillo». Si potrebbero altresì ricordare gli episodi della gatta giustiziata da una suora in maniera cruenta per aver partorito o del cervo volante che, nonostante sia stato infilzato con uno spillo da un’entomologa inesperta, continua a trascinarsi pietosamente sul pavimento. Molto intense anche le pagine sulla morte di alcune suore, accuratamente nascosta alle collegiali.

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