Dolores Prato, il corpo martoriato di Roma perduta tra cupole e vestigia
Gli elzeviri della scrittrice Il sarcofago di Augusto, il Pantheon, le chiese paleocristiane, i gatti, i taxi, il biondo Tevere... Tra gli anni ’50 e ’70 Dolores Prato scrive le sue divagazioni su «Paese Sera»: le ripubblica Quodlibet
Gli elzeviri della scrittrice Il sarcofago di Augusto, il Pantheon, le chiese paleocristiane, i gatti, i taxi, il biondo Tevere... Tra gli anni ’50 e ’70 Dolores Prato scrive le sue divagazioni su «Paese Sera»: le ripubblica Quodlibet
La vicenda di Dolores Prato conserva i crismi dell’eccezionalità: il suo romanzo Giù la piazza non c’è nessuno uscì infatti nel 1980 nei «Coralli» einaudiani in una versione ridotta da Natalia Ginzburg, suscitando un notevole interesse da parte del pubblico e della critica ma anche un certo malumore nell’autrice, quasi novantenne, che non si riconosceva nelle «manomissioni» operate dalla sua mentore. La Prato morirà a distanza di tre anni e il romanzo sarà riproposto in forma integrale nel ’97 da Mondadori a cura di Giorgio Zampa che precedentemente dette alle stampe anche i due volumetti di Le ore per Scheiwiller, poi ripresi nel libro eponimo di Adelphi.
Oltre a Campane a Sangiocondo (Avagliano, 2009), che rappresenta il suo primo romanzo, apparso con il titolo Sangiocondo in edizione autofinanziata nel 1963, la Quodlibet ha provveduto a rilanciare la figura della narratrice, pubblicando Scottature (1996) e Sogni (2010) nonché la ristampa del suo capolavoro, Giù la piazza non c’è nessuno (2009). In questo libro-monstre, di chiaro taglio autobiografico, di oltre 700 pagine, arricchito in calce da un opportuno glossario, si narrano le vicissitudini della protagonista, nata a Roma da una relazione clandestina e cresciuta a Treia, piccola città del maceratese, da uno zio prete e dalla sorella di quest’ultimo, prima di essere ospitata in un istituto di suore di clausura e tornare nella capitale. Qui la scrittrice si laureò presso la Facoltà di Magistero nel 1918 e continuò a operare fino alla morte.
Tra gli anni cinquanta e settanta appare un certo numero di elzeviri su quotidiani e periodici, soprattutto su Paese Sera, di cui è direttore l’amico Fausto Coen, ora raccolti, insieme a qualche inedito, in Roma, non altro (Quodlibet «Storie», pp. 208, € 15,00). Il volume esce a cura di Valentina Polci che aveva già proposto la trascrizione commentata dei frammenti autografi su Roma in «Voce fuori coro» di Dolores Prato (Quodlibet 2016). Si tratta di eleganti digressioni intorno alla città eterna, sempre pervase di sottile ironia, che passano dalle Divagazioni tiberine alle considerazioni sulla sacralità del gatto importato dall’Egitto, dall’universo cifrato delle catacombe (deliziosi Il mondo sottoterra e Resistenza di Roma) al sarcofago di Augusto, da una moderna Trastevere, che rimanda per contrasto alle immagini color seppia di vecchie fotografie, al Pantheon, definito «il più enigmatico monumento romano». In Il santo bisestile la scrittrice elenca, un po’ irriverentemente, i nomi di chiese dedicate a santi mai esistiti come Caio, Portogallo, Zotico, Anigro, Passera, Macuto, Simmetrio, Stratonico, addirittura San Siluro, che ricordano il calendario allestito da Jarry per l’anno 1901 nell’Almanach illustré du Père Ubu: da S. Asparago a S. Stranonzo, da S. Crauto a S.ta Soppressata, da S. Puré a S.ta Varice.
Ma lo stile di Dolores Prato è agli antipodi rispetto a quello delle rutilanti sperimentazioni linguistiche di Jarry, mai esenti da intenti trasgressivi dichiarati, basandosi piuttosto su scritti che sembrano ricamati in aria, tratteggiati in punta di penna con una levità e una sapienza compositiva derivanti da un trasporto atavico per strade e monumenti, per giardini e ipogei, per case e chiese che si sgretolano o vengono abbattute per far posto a ciò che risulta utile e funzionale. Non si indulge mai alla trivialità, le parole hanno perduto il loro senso originario diventando «idropiche». Eppure, saranno queste parole «così spesso gonfie e vuote», che «ci hanno fatto male», a rivendicare il diritto all’insubordinazione di fronte allo scempio architettonico, alla Roma che scompare per sfumare gradualmente nei contorni di «una città qualunque».
La polemica non riguarda solo lo snaturamento del paesaggio, ma investe anche elementi apparentemente meno importanti come le sigle degli autobus sostituite da combinazioni anonime di cifre o l’adeguamento internazionale delle tinte dei taxi. Il giallo squillante dei taxi non è consono a Roma, in quanto «è il colore dell’allontanamento», inviso a quello della «crosta di pane cotto al forno; di travertino vecchio, di oro brunito dal tempo». La scrittrice reclama l’unicità dell’Urbe, i colori che devono intonarsi a quinte e fondali facendo affiorare dal verde digradante di orti e giardini il «rossiccio dei mattoni cotti da secoli di sole», al Tevere che ha assunto quelle screziature paglierine a causa del «grande oro che si trovava nel suo fondo: statue, monete, diademi, monili, tutte le ricchezze che i Romani gettavano (…) all’avvicinarsi dei Barbari». Il recupero quasi puerile di miti e leggende che sfumano nel paradosso si coniuga a uno stile sorvegliato, misurato, che sembra rifarsi a un’urbanistica in parte sfuggita al degrado avvenuto dopo la proclamazione di Roma capitale.
A tratti questi elzeviri ricordano, per l’empatia con gli argomenti trattati, la prosa baroccheggiante di Vigolo che sembra imitare le volute del Bernini, presaga di un disfacimento che la scuote dall’interno e l’attraversa come il zig-zag di una folgore sputata da un cielo venato di cobalto. Ma le prose della Prato rinviano soprattutto alle volumetrie di chiese paleocristiane e romaniche (il Pantheon divenuto S. Maria ad Martyres, il portico della Basilica di S. Vitale, S. Maria in Trastevere), sempre alla ricerca di vestigia che connotino il profilo frastagliato di una città che ha la consistenza fragile e imperitura del tufo.
In tale contesto spiccano i ritratti di amici come l’insigne latinista Concetto Marchesi, che desiderava un funerale modesto come quello a cui assistette casualmente con la scrittrice nei pressi di Prima Porta o il pubblicista Mario Vinciguerra, presidente della Siae, ricco di consigli e di un’umanità non comune. Il giornalismo sui generis della Prato, contaminato di elementi autobiografici, diventa così una critica implicita al malcostume che, dall’annessione al Regno d’Italia al fascismo alla globalizzazione, ha posto Roma sotto l’egida di un’inautenticità crudele: «La vera Roma è ridotta simile al corpo di un martire: spezzata, dispersa, esposta a frantumi sotto forma di reliquia».
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