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Dolore per la morte di un ragazzo o speculazione proibizionista? Con il pill test si poteva evitare

Dolore per la morte di un ragazzo o speculazione proibizionista?  Con il pill test si poteva evitare – Reuters

Ecstasy Drammi eludibili con l’«allerta rapido», praticato in tanti Paesi europei

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 5 agosto 2015

La morte di Lamberto Lucaccioni, 16 anni, se veramente fosse stato un lutto doloroso per i tanti che ne hanno scritto, sarebbe potuta essere l’occasione, nel pieno rispetto della giovane vittima, per una riflessione sulle politiche e lo stato dei servizi dedicati al consumo di droghe. E scoprire, magari, il forte ridimensionamento di quelle attività di “prossimità” che, da quasi vent’anni, si occupano di informare, limitare i rischi e ridurre i danni di consumi che avvengono in ogni dove, dai condomini ai rave party.

Il Cocoricò, il Pachà, l’Hollywood, il Divinae Follie, solo per citare alcune delle discoteche più note, non hanno aperto i battenti l’anno scorso: la loro storia inizia tra gli anni ’80 e ’90, quando la discoteca diviene il luogo più frequentato dai giovani, superando lo stadio di calcio, ed affollando le 6.232 sale da ballo censite dal Silb (Sindacato italiano locali da ballo) nell’autunno del 1996.

Se l’emergenza discoteca ha oltre vent’anni, lo stesso si può dire dell’ecstasy. Bisogna tornare indietro al ’95, quando la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga organizzava un Seminario sui derivati amfetaminici, uno dei primi dedicati ad un fenomeno in tumultuosa crescita che ancora non aveva trovato un suo nome mediatico (nuove droghe): nel 1991, sotto la voce «amfetaminici vari» risultavano sequestrate 5.913 pasticche; ’95 salgono a 134.000 e le operazioni di polizia passano dalle 74 del ’90 alle 1.052 del ’95.

Allarme? Emergenza? Jannick Blesio, 19 anni, operaio, muore al Number One di Brescia nel novembre 1999. Sarebbero da ripubblicare i titoli dell’epoca; uno tra tanti, de La Repubblica del 5 novembre: «Ecstasy killer, lo spacciatore confessa». Per inciso, lo spacciatore era un amico di Jannick, di 20 anni. Sedici anni fa, e ricordo bene quello che mi dicevano, con ironia, i giovani che incontravamo in discoteca facendo il nostro lavoro: «Senti un po’, ma se mezza pasticca ha ucciso il ragazzo morto al Number One, l’altra mezza chi ha ammazzato? Che fanno una pasticca alla volta? Quante cazzate…».

Si può immaginare quanta fatica si fa a spiegare, di fronte a queste considerazioni, che le pasticche vengono sintetizzate in laboratori di fortuna, spesso contengono tutt’altro rispetto a quello che ti dice chi le vende, che più sostanze prese insieme aumentano i rischi e i danni, che ballare per ore bevendo poco e mangiando ancora meno non va bene, ecc.

No, non siamo di fronte ad un allarme sociale e i luoghi dello sballo non sono diventati «discariche sociali che fingiamo di non vedere», come scrive l’ineffabile Severgnini sul Corriere del 4 agosto. Le autentiche discariche sociali, semmai, sono diventati troppi quartieri periferici da cui provengono i ragazzi che affollano eventi del ballo notturno, sia commerciali sia autorganizzati.

Se davvero si volesse ragionare intorno alla morte di Lamberto, non con un approccio morale ma di sanità pubblica (quello che spetta a uno stato laico), dovremmo chiederci: perché in Italia non si autorizza l’analisi delle sostanze (pill test) nei luoghi di consumo, come avviene in molti paesi europei?

Si guardi il sito della Svizzera italiana www.danno.ch e ci si renderà conto di come funziona un vero “allerta rapido”, in grado di evitare tanti incidenti. Perché ci si ostina con campagne nazionali formalmente «dissuasive al consumo», ma che nella realtà servono solo a rassicurare gli adulti? Perché i servizi pubblici, i Ser.T. , hanno una tale carenza di personale che gli consente solo di fronteggiare i bisogni delle persone dipendenti da oppiacei? Perché le pratiche di unità di strada, che in questi anni hanno dato prova di grande efficacia, sono ancora «progetti» e non programmi stabili e diffusi su tutto il territorio nazionale? Soprattutto, perché non ci si rende conto che l’unica vera tutela è diffondere una cultura sulle sostanze basata sulle evidenze scientifiche e non sugli approcci morali? Non è un caso che sono i consumatori più giovani e più inesperti quelli che rischiano di più. Se qualcuno al Governo è addolorato come lo siamo noi, provi a rispondere a queste domande.

Resta una considerazione. Nel momento in cui il nostro Paese apre un dibattito su una nuova regolazione in merito ai cannabinoidi, anche in seguito ad una proposta firmata da 218 parlamentari che prevede la legalizzazione di tali sostanze, la stampa sembra di nuovo interessarsi al tema. Peccato che, prima la vicenda quanto mai fantasiosa della cannabis “corretta” con il metadone, l’amnesia (che si sta rivelando almeno sospetta), poi la tragica vicenda del Cocoricò, invece di contribuire nella società ad una riflessione sui consumi di sostanze psicotrope, sembrano essere utilizzate, spregiudicatamente, per sfornare il solito repertorio proibizionista e punizionista.
*Sociologo

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