Dok Leipzig, la realtà che sfida le convenzioni
Cinema Al festival tedesco del documentario emergono le visioni minerali di «Lapilli» di Paula Durinová e le tarantate rivisitate al presente da Anja Draschke e Michaela Schäuble. Tomasz Wolski indaga il 1981 polacco dalla legge marziale a Solidarnosc
Cinema Al festival tedesco del documentario emergono le visioni minerali di «Lapilli» di Paula Durinová e le tarantate rivisitate al presente da Anja Draschke e Michaela Schäuble. Tomasz Wolski indaga il 1981 polacco dalla legge marziale a Solidarnosc
Come affrontare, con le immagini, un doppio lutto? Come trovare un modo, uno sguardo, una prospettiva che espanda il dolore e lo connetta con lo spazio, la natura, il cosmo? Paula Durinová è riuscita a rendere questo punto di partenza intimo (e il 4:3 comunica ancora di più questa intimità) e trasformarlo in riflessione universale nella sua opera prima Lapilli, uno dei film più rigorosi e commoventi presentati in questi giorni a Dok Leipzig, festival dedicato al documentario e all’animazione giunto alla sessantasettesima edizione (termina domani) e radicato nel cuore della città della Sassonia, distribuito in diverse sale e spazi d’incontro che hanno disegnato una costellazione di linee tra le quali muoversi in un tessuto urbano ricco di storia e memoria.
Lapilli era tra i titoli di Camera Lucida, sezione che ha ospitato film inscritti in sfide alle convenzioni cinematografiche per descrivere il reale. Dalle prime inquadrature (acque tumultuose a tutto schermo) all’ultima (la fotografia del nonno dell’autrice in pigiama con i piedi nell’acqua), la regista e artista visiva slovacca ha creato un film-saggio, una composizione per immagini, parole, suoni. Le immagini (filmate in Slovacchia, Georgia, Grecia, Pompei – ma sembrano appartenere a un set unico) sono quelle di laghi, montagne, rocce, minerali, cave (una fonte d’ispirazione, afferma Durinová nell’incontro con il pubblico dopo la proiezione, è stato Il buco di Michelangelo Frammartino), terra arida, cielo, e di rade presenze umane che quasi scompaiono nella vastità delle distese oppure – è il caso della donna che tocca la terra, la annusa letteralmente, ne è parte – sono portate in primissimo piano.
Ne esce una visione cosmica, filosofica, un’esplorazione dello spazio per camera fissa o movimenti ondulatori. Le parole sono quelle della filmmaker che, dando voce fuori campo ai suoi pensieri, ci fa conoscere anche la storia dei nonni morti durante il Covid; una voce che, per un lungo momento, sparisce, per poi tornare, lasciando che a «parlare» siano soltanto i sottotitoli usati come didascalie. I suoni sono quelli di una colonna sonora (di Petra Hermanová) minimalista, sperimentale, astratta che dialoga alla perfezione con le immagini, e viceversa.
CI CONDUCE nel Salento, del passato e del presente, Tarantism Revisited di Anja Draschke e Michaela Schäuble, registe con formazione antropologica che hanno lavorato a quest’opera per dieci anni, dal 2014 al 2024. Il risultato è un film anti-didascalico, un film-specchio tra le immagini sul tarantismo provenienti soprattutto dagli anni Sessanta (archivi di assoluta modernità, tra essi sono presenti estratti da lavori di Luigi Di Gianni, Gianfranco Mingozzi, e, del 1981, di Annabella Miscuglio) e quelle girate oggi da Draschke e Schäuble, ovvero, come suggerisce il titolo, la «rivisitazione» di quell’antico fenomeno sociale, culturale, religioso frequentando quei posti, ri-compiendo una ricerca sulla base di una ricerca che ruotò attorno alla figura di Ernesto De Martino. Immagini che «si guardano». I gesti e le parole delle tarantate. Lo sfinimento erotico nelle danze interrotte e riprese con precisa ritualità. La funzione dei suonatori. E già allora, e così oggi, la messa in scena – a favore di un programma televisivo d’epoca o del turismo odierno – della possessione, anch’essa da rivisitare. Sempre avendo in mente, spiegano le cineaste, che il tarantismo era una forma di rivolta al patriarcato.
L’ARCHIVIO è, ancora una volta, fonte di preziosa indagine per il polacco Tomasz Wolski. Con A Year in the Life of the Country Wolski guarda a un anno speciale, e drammatico, nella storia della Polonia, il 1981, quando il 13 dicembre il presidente, e generale, Wojciech Jaruzelski promulgò la legge marziale (che durò un anno) per contrastare le sollevazioni popolari e il movimento sindacalista Solidarnosc di Lech Wałesa. Un breve flash-back dà conto di scioperi, manifestazioni di piazza, lotte nelle fabbriche. Poi si torna a quel giorno fatidico e alla dichiarazione in tv di Jaruzelski. E Wolski, da subito – e lavorando solo su materiali d’archivio, costruendo attraverso il montaggio una indelebile narrazione -, pone l’accento, non senza ironia a volte, sul doppio livello su cui si regge il film: quello storico e politico e quello teorico. Perché non si tratta solo di riportare alla visione un atto repressivo, e le sue conseguenze, ma di ragionare sui dispositivi mediatici, sulle troupe al lavoro, sugli intoppi che possono accadere durante una registrazione, sul montaggio che può rendere possibile un incontro impossibile (tra il giornalista televisivo inglese e Jaruzelski). E sull’uso del bianconero e del colore. Wolski li alterna anche all’interno di una stessa scena con esemplare nitidezza e consapevolezza.
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