Dopo un anno la «kangaroo court» di documenta – come viene definita da Ranjit Hoskote (poeta indiano, critico d’arte e curatore) – torna in azione. Nel giugno scorso, all’apertura di documenta15, curata dal collettivo indonesiano ruangrupa, il governo tedesco aveva nominato una commissione disciplinare al fine di correggere l’errore dei selvaggi, punirli nella pubblica piazza, «civilizzarli». Sottintesa: la presunta «incapacità di comprendere» del collettivo. Eppure ruangrupa era stato scelto dal Finding Commitee – che aveva espresso ammirazione per il lavoro svolto – a sua volta designato dalla istituzione tedesca. A chi, quindi, deve essere attribuita l’incapacità di comprendere?

NELL’ATTUALE CONTESTO della guerra israelo-palestinese, miopi fusioni tra opposizione alla politica israeliana e accuse di antisemitismo, anticipano la disciplina. Nella sua lettera di dimissioni Hoskote scrive: «Sono sconvolto dall’accusa di essere antisemita e dal suggerimento che ’avrei bisogno di istruzioni’ su questo argomento delicato. Semplici fattori biografici rendono assurda questa accusa». Oltre a smascherare la distorsione dei fatti, Hoskote solleva una domanda legittima sulle ragioni per cui nessuno si sia chiesto perché il consolato israeliano avesse trovato opportuno equiparare il sionismo all’Hindutva, «un’ideologia autoritario-populista ispirata alle dottrine e ai metodi nazisti e fascisti, che concepiva lo stato nazionale a maggioranza indù e le minoranze religiose come entità di seconda classe».
L’Europa non mostra alcun interesse a colmare la propria ignoranza. «È chiaro – conclude Hoskote – che non c’è spazio, in questa atmosfera tossica, per una discussione articolata sulle questioni. Un sistema che sceglie di ignorare sia la criticità che la compassione è un sistema che ha perso la sua bussola morale». Il processo disciplinare innescato da documenta15, confermato da quanto sta avvenendo in questi giorni, rivela l’ipocrisia della politica culturale decoloniale europea.

Prima di Hoskote, Bracha Ettinger, artista israeliana, si era dimessa per non sentirsi in condizioni di continuare e, in solidarietà, o forse in asfissia, la restante parte della commissione: «È questo il clima emotivo e intellettuale di eccessiva semplificazione di realtà complesse, e delle conseguenti limitazioni restrittive, che prevale da documenta15. Nelle circostanze attuali non crediamo che ci sia spazio in Germania per un aperto scambio di idee e per lo sviluppo di approcci artistici complessi e ricchi di sfumature. Non crediamo che si possano creare condizioni accettabili a breve termine».

EPPURE, anche in queste condizioni, il soft power della Germania continua a essere uno dei principali finanziatori e leader delle politiche culturali decoloniali in Europa e nel Global South. Se in Europa la discrepanza di investimenti destinati alla ricerca, e alla produzione culturale non può risultare dato neutro (come dimostrato dall’articolo uscito pochi giorni fa), Berlino violentemente risucchia le eccellenze del Sud del mondo, come facevano le politiche della Banca mondiale negli anni 80 e si approfitta localmente di tutto il surplus di valore da loro creato. E questo viene letto come decolonial, fino a quando il «selvaggio» non infastidisce i piani, perché non capace di capire o di adattarsi a precostruite idee di «multiculturalismo» unidirezionale. Non volendo in alcun modo giustificare le azioni dello Stato israeliano, bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni per cui si accetta incondizionatamente il boycott a Israele senza questionare i fondi tedeschi (come quelli di prestigiose istituzioni di arte saudite).