Dobbiamo coltivare le nostre città
Non è possibile ignorare la centralità della terra e della sua coltivazione, non fu possibile prescindere dal coltivare ogni particella disponibile durante le guerre, e piazze prestigiose in tutte le […]
Non è possibile ignorare la centralità della terra e della sua coltivazione, non fu possibile prescindere dal coltivare ogni particella disponibile durante le guerre, e piazze prestigiose in tutte le […]
Non è possibile ignorare la centralità della terra e della sua coltivazione, non fu possibile prescindere dal coltivare ogni particella disponibile durante le guerre, e piazze prestigiose in tutte le città d’Europa furono convertite in campi. Cavolfiori a Mosca, grano davanti a Saint Paul a Londra, orti dappertutto, vennero chiamati «orti di guerra». E adesso? Di fronte a questa pandemia, impauriti dal coronavirus, davanti ai supermercati per procacciarci di che mangiare, non è forse altrettanto impellente porsi la questione di una maggiore autonomia, se non l’autosufficienza completa, almeno per sottrarsi ai capricci del mercato? I mercati contadini hanno retto il colpo. Presto, la grande distribuzione (speriamo di no) potrebbe trovarsi alle prese con problemi di approvvigionamento. I braccianti dell’est Europa venendo a mancare, essendo chiuse le frontiere. In ogni caso, nella storia, non si è sprecata la terra, non si è mai trascurato di coltivare e piantare tutto il coltivabile.
Che i giardini condominiali siano una serie sterile e noiosa di thuie e laurocerasi velenosi, è cosa moderna, neppure cinquant’anni. Prima era normale vedere alberi di mele, peri, nespoli e pesche. Al sud Italia, ovunque, aranci, mandarini, limoni erano paesaggio normale fin dentro le città. Poi, una bizzarra quanto stupida moda borghese ha eliminato gli alberi da frutta per far posto ad essenze «da signori», per evitare di «sporcare il prato». Si sono tagliati i cachi, per esempio. Nella pratica, oggi, si tratta di ripristinare quelle città commestibili che c’erano già. E’ pura assennatezza farsi l’orto, ripiantare alberi da frutta ovunque, tappezzare davanti casa con fragole, smetterla con thuie e laurocerasi e piuttosto impiantare noccioli.
Le città diventerebbero più belle e salubri. Tutti ne gioverebbero, anche la microfauna, per non dire delle api. Transition town, corridoi ecologici, tutte queste espressioni per tentare di mettere una pezza al difetto più macroscopico delle nostre metropoli: non stanno in piedi da sole. Queste città, le nostre città, noi, abbiamo chiaramente schifato ciò che era normale sino agli anni Cinquanta: coltivare anche all’interno di esse per esercitare la più necessaria delle pratiche umane: mangiare. Gli orti sociali e condivisi, le fattorie, le cascine ripristinate all’interno di alcune città, a Milano, per esempio, una rete di orti didattici, un rinnovato orgoglio anche da parte dei giovani verso un ritorno alla terra ci dicono con forza che in tempi di incertezza e paura la resilienza è la prima forma di precauzione possibile.
Coronavirus, cambia il clima e nulla dovrà tornare come prima. Adesso è questo, domani chissà che altro ancora, tutti coloro che lo hanno capito, il composito «fronte degli orti», sono oggettivamente la dimostrazione di una presa di coscienza individuale e collettiva che, a partire dalle reti contadine esistenti, dai coordinamenti già in atto, un mondo che coltiva rispettando la terra e gli uomini, è oggi più che mai l’assicurazione vivente che se l’economia finanziarizzata non garantisce che caos e crisi speculative, i nostri campi coltivati con amore garantiscono un frutto sano. Prendere coscienza di questo ed allargare e coalizzare quanto esiste, è la cosa giusta da fare.
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