«Do Not Expect Too Much from the End of the World», la fine del mondo nel traffico di Bucarest
Al cinema Il nuovo film di Radu Jude, vite al limite della precarietà capitalista. La protagonista Angela a bordo della sua auto, il lavoro senza sosta e gli sfoghi sui social
Al cinema Il nuovo film di Radu Jude, vite al limite della precarietà capitalista. La protagonista Angela a bordo della sua auto, il lavoro senza sosta e gli sfoghi sui social
Lo scorso anno era in concorso al festival di Locarno, nel frattempo il suo irruente autore ha già realizzato due corti: Sleep#2, sequel ideale di Sleep di Warhol, e Eight Postacards from Utopia, materiali d’archivio degli spot trasmessi dalla tv rumena dagli anni Novanta a oggi, nei quali si confronta col passato della Romania, il suo Paese, che come sempre proietta sul l’attualità. Ma il post-socialismo è una delle lenti privilegiate per Radu Jude da cui osservare il tempo presente, del suo Paese, e di lì, in qualche modo, nell’era del mondo globalizzato con le dinamiche che ne governano ovunque gli andamenti. E perciò neoliberismo, precariato, ipocrisie del «politicamente corretto», razzismi, pregiudizi di varia entità. E con quell’umorismo che nella sua scrittura cinematografica non è mai casuale ma diviene una dichiarazione politica. E che rende l’autore di Bad Luck Banging or Loony Porn (2021) – premiato con l’Orso d’oro, uscito in Italia col titolo Sesso sfortunato o follie porno – sin dai suoi esordi nel 2009, con The Happiest Girl in the World, uno dei registi più talentuosi nel cinema di oggi.
Do Not Expect Too Much from the End of the World riprende i temi – e il punto divista – di Jude sulla realtà, e sin dal titolo, la cui ironia del «Non aspettarti molto dalla fine del mondo» si ispira a un aforismo di Stanislaw Jerzy Lec. Protagonista è Angela (Ilinca Manolache) una giovane donna che passa la giornata nel traffico aggressivo di Bucarest. Lavora per una società di produzione cinematografica rumena a servizio di multinazionali estere, come casting ma anche runner e persino cameriera, vista la mancanza di personale. Dai finestrini della sua macchina, in un bianco e nero sgranato (della pellicola) scorre un paesaggio di speculazioni edilizie che divorano persino i terreni del cimitero – tra i loculi spazzati dalle nuove proprietà private c’è anche quello della nonna appena sepolta della ragazza – ricchezze e miserie. Queste ultime estremamente concrete nelle case di chi incontra per il nuovo spot sull’importanza dei mezzi di protezione al lavoro: operai e lavoratori rimasti invalidi per un incidente di cui le imprese quasi sempre non riconoscono la responsabilità.
ANCHE LEI rischia di finire come loro vista la stanchezza di giornate senza fine al volante: in macchina mangia, fa sesso prima di correre a prendere la dirigente magnanima della multinazionale (Nina Hoss) remota pronipote di Goethe, che non ha mai letto però nemmeno un rigo delle opere dell’illustre parente.
In parallelo a questo c’è un altro film, ambientato nella Romania del 1981: colori saturi di una vecchia copia mai restaurata con una giovane donna che si chiama anche lei Angela e guida un taxi. I maschi al volante sono sempre poco gentili ma la violenza non sembra così esacerbata: sarà stato meglio durante il socialismo o è solo questione che ci sono meno macchine in giro? E quel passaggio al post-socialismo è stata una conquista o un’occasione perduta?
L’Angela di oggi sfoga la sua rabbia su IG con un «doppio» maschile che lancia commenti sessisti e volgarissimi rimando a (o parodia di) Andrew Tate, il social-machista in Romania condannato per prostituzione e stupro. E nel frattempo raccoglie pezzi di vite stritolate come la sua dall’insicurezza (economica e non solo) che le schiavizza.
NON È SEMPLICE parlare di gig economy senza vittimismo o ritratti edificanti e consolatori, inventando un costante spiazzamento formale nel quale si delinea quel cortocircuito terribile tra accettazione per necessità e controllo; quindi paghe basse e orari di lavoro massacranti fino a mettere da parte ogni dignità e per un migliaio di euro apparire nello spot passando quasi da «colpevoli» della propria invalidità nell’abile «washing» della multinazionale che promuove la sicurezza ma non la garantisce ai propri lavoratori.
Questa urgenza di fare i conti con la nostra realtà rimane la linea orizzontale della narrazione divisa in due capitoli, il secondo più breve è la parte migliore del film, affermata, insistita fino persino alla ripetitività che tiene insieme l’on the road di una giornata di cui ogni dettaglio si fa espressione, – e consapevolezza – del nostro mondo. Di chi accetta perché senza scelte o senza più appigli in una protesta collettiva, in una lotta, in una rivolta. Di cui il cinema, affermando una libertà di essere, può ancora farsi narratore – e provocatore. Come accade con Radu Jude.
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