Quando il 3 luglio 2011, Novak Djokovic vinse la sua prima finale a Wimbledon sconfiggendo in quattro set Rafa Nadal, in molti pensarono alla definitiva consacrazione del campione serbo. Era la promessa mantenuta di un talento limitato solo da qualche calo fisico, seppur preoccupante, e dalla presenza dei due mostri sacri, il già menzionato Nadal e Roger Federer. In quell’anno, il tennista di Belgrado, all’epoca ventiquattrenne, sembrava intoccabile, superato solo dal fuoriclasse svizzero in una sorprendente semifinale a Parigi, unica pecca in una serie interminabile di trionfi su ogni superficie. Sui prati inglesi, Djokovic diventò per la prima volta numero uno del mondo sorpassando il rivale spagnolo che fino a pochi mesi prima appariva irraggiungibile.

SE PERÒ Marty McFly, viaggiando con la macchina del tempo costruita da Emmett «Doc» Brown, avesse riportato indietro un libro con i risultati sportivi dei successivi dodici anni, nessuno avrebbe creduto a una sola riga di quanto scritto, ritenendo quella pubblicazione bizzarra e mendace. Era assai più probabile immaginare il funzionamento di una vettura capace di passare indistintamente dal passato al futuro, modificando gli eventi del presente, che pensare a Djokovic in grado di aggiudicarsi altri venti Slam (due li aveva già vinti in Australia nel 2008 e in quello stesso 2011), di portarsi a casa ulteriori sei edizioni del prestigioso torneo sull’erba londinese (a un passo dall’eguagliare Federer con i suoi otto titoli), e di infrangere ogni tipo di record.

E INVECE è andata proprio così. Il fantomatico libretto di McFly diceva il vero, quanto meno fino alle pagine che riguardavano l’ultimo Roland Garros disputato non più di tre settimane fa, quando contro molti pronostici, Djokovic si è preso il ventitreesimo Slam ai danni del norvegese Casper Ruud, la vittima sacrificale di turno.
A un giorno dall’inizio di Wimbledon, il campione in carica da quattro edizioni consecutive (nel 2020 il torneo non è stato disputato causa pandemia) è da considerarsi l’ovvio favorito, ancor più di quanto lo fosse in Australia e in Francia, dove le condizioni fisiche e le poche partite giocate potevano suscitare dubbi più che legittimi. Al di là delle motivazioni personali che appaiono inesauribili e di una adattabilità alla superficie comprovata dai risultati, è difficile dare forma a un avversario capace di tenergli testa sulla distanza di cinque set. Gli specialisti del manto erboso, tra cui il finalista dell’anno scorso Nick Kyrgios, quello di due anni fa Matteo Berrettini e Hubert Hurkacz potenziale contender negli ottavi (sperando che all’appuntamento di presenti al posto suo Lorenzo Musetti), sono molto lontani dalla loro forma ideale. E per battere il serbo, forse non basta nemmeno essere al massimo.

PER DJOKOVIC vincere a Londra significherebbe, inoltre, continuare a sperare nell’unico traguardo che manca all’appello insieme all’oro olimpico (per quello bisognerà aspettare Parigi 2024): il Grande Slam, già fallito per poco nel 2021 a New York per mano del russo Daniil Medvedev.
E i giovani? I vari Carlos Alcaraz, Holger Rune, Jannik Sinner e Musetti, che parte avranno in questo spettacolo dal finale annunciato? Come Ritorno al futuro insegna, tutto può cambiare se qualcuno inavvertitamente modificasse l’ordine degli eventi. Di sicuro, è giunta l’ora di spiegare ai talenti che si impadroniranno del tennis mondiale dei prossimi dieci anni che forse i modelli da eguagliare non sono gli extraterrestri, ossia il trio Djokovic, Federer e Nadal (in rigoroso ordine alfabetico). Per una serie di circostanze quei tre hanno compiuto qualcosa di inimmaginabile in termini di continuità e longevità. Tutti i luoghi comuni sono stati contraddetti. E se le seconde linee nel corso degli anni si sono accontentate delle briciole cadute per terra, nemmeno di quelle sulla tovaglia, per i ventenni di oggi il nemico più insidioso è l’ossessione di emulare quello che non si può pianificare in alcun modo. Sarebbe saggio, e comunque ambizioso, tornare a sperare di essere come Pete Sampras, Andre Agassi, John McEnroe e tanti altri campioni che vincevano e perdevano e che talvolta bucavano un torneo e si permettevano delle salutari pause.