Djamila Ribeiro, la rabbia che sprigiona forza femminile
TEMPI PRESENTI Un’intervista con la filosofa e femminista brasiliana a Parigi per un incontro sulla genealogia delle lotte. Della sua opera prima «O que é lugar de fala?» (2017) uscirà la traduzione italiana in primavera
TEMPI PRESENTI Un’intervista con la filosofa e femminista brasiliana a Parigi per un incontro sulla genealogia delle lotte. Della sua opera prima «O que é lugar de fala?» (2017) uscirà la traduzione italiana in primavera
Negli studi femministi si è scelto di identificare la nascita del pensiero femminista intersezionale con la pubblicazione di un articolo di Kimberlé Creshaw uscito nel 1989 per la rivista studentesca University of Chicago Legal Forum. Nell’articolo, Creshaw parlava specificamente dell’intersezione discriminatoria tra il sessismo e il razzismo subito dalle donne afroamericane. La prospettiva intersezionale costituisce un presupposto imprescindibile per il femminismo nero postcoloniale, decoloniale e anticoloniale, perché guarda alle discriminazioni di genere strutturando i motivi dei divari a partire dalle interconnessioni che ci sono tra le dominazioni di genere e le oppressioni di classe, razza e religione. Tuttavia, ben prima di questa data, e anche ben prima del femminismo della seconda ondata, le donne nere schiavizzate consideravano le violenze discriminatorie e il divario di classe e di genere secondo una prospettiva capace di dare conto della loro condizione di «Altra dell’Altra», come ha teorizzato Grada Kilomba in un suo saggio del 2008 intitolato Plantation Memories: Episodes of Everyday Racism. Altra in quanto ««entità» opposta ai maschi bianchi eterosessuali e benestanti e alle donne non razzizzate delle classi privilegiate. Di discriminazioni di razza, di classe e di genere si è parlato pochi giorni fa nelle sale del Centre International de Culture Populaire di Parigi, capitale di un paese in cui di razzismo si parla malvolentieri, come se silenziare un’evidenza consentisse di non vederla e illudersi che non esista. In una sala grema ed entusiasta sono state accolte le brasiliane Djamila Ribeiro e Joice Berth e due francesi Françoise Vergès e Gerty Dambury.
La tavola rotonda si è mossa sull’adagio «Nos pas viennent de loin», a significare la genealogia che lega le donne razzizzate e che unisce le lotte presenti a quelle che le hanno precedute. L’eredità resistente delle ribellioni antischiaviste ha messo in luce la portata rinnovatrice del femminismo nero, il valore portante della militanza e dell’agentività politica. Senza fare allusione diretta alle prepotenze discriminatorie nello stato di Rio de Janeiro, che si sono esacerbate con l’arrivo del governatore ex magistrato del Partito Social Cristiano Wilson Witzel, è stata ricordata Marielle Franco. È stata ribadita l’esigenza di leggere e di citare le opere di ricercatrici e militanti come Sueli Carnero, Luisa Baros, Núbia Moreira, Audre Lorde, Beatriz Nascimento, bell hooks, Lélia Gonzalez, Patricia Hill Collins e molte altre.
Djamila Ribeiro, filosofa politica e teorica del femminismo nero, è una delle protagoniste del movimento nero e del pensiero decoloniale in Brasile. Di O que é lugar de fala? (2017), sua opera prima, uscirà la traduzione in italiano la prossima primavera presso la casa editrice Capovolte di Alessandria. In visita in Francia anche per promuovere la traduzione delle sue cronache sul settimanale CartaCapital (dal 2014 al 2017) intitolata Chroniques sur le féminisme noir (Anacaona, 2019, nella traduzione di Paula Anacaona), ci parla della necessità di articolare le lotte da un punto di vista transnazionale. Di empowerment e dell’importanza per le donne di autorizzarsi alla parola. Di come il privilegio sociale e di genere sia diventato nel tempo anche un privilegio epistemologico. Degli sviluppi del pensiero decoloniale e della pratica femminista nel Brasile razzista, classista e machista del governo Bolsonaro.
Nel suo libro fa riferimento di frequente al pensiero della femminista afroamericana Patricia Hill Collins. In particolare, in quanto ricercatrice e militante, lei sembra aderire alla convinzione di Collins secondo cui non si dovrebbe fare la distinzione tra la teoria femminista (gli studi universitari focalizzati sul genere) e la pratica femminista – perché la teoria costituirebbe la «pratica personale».
Non penso soltanto alla positività della doppia prospettiva della ricerca e della militanza e a tutte le conseguenze proficue di una pratica che si configura allo stesso tempo come plurale e personale. Penso anche, anzi soprattutto, alla realtà delle donne razzizzate delle classi più povere, che in Brasile continuano a costituire la maggioranza della popolazione. La mobilità sociale è pressoché assente. La possibilità di completare gli studi superiori e quelli universitari, che consentono l’accesso al sapere accademico, non sono scontati e restano ad appannaggio di poche e pochi. La pratica femminista associativa e la militanza all’interno di collettivi femministi consentono la condivisione dei saperi in maniera avulsa dalle proprie possibilità economiche; questa pratica permette ai corpi e alle parole di queste donne di essere visibili, di prendere spazio e voce.
Lei cita Sojournes Truth, ex schiava, che nel 1851 pronunciò il discorso «Non sono dunque io una donna» durante la Convenzione dei diritti delle donne in Ohio, come esempio della consapevolezza di una prospettiva femminista intersezionale antecedente al XX secolo. Quali sono le cause del ritardo nella diffusione di questa prospettiva?
Il malcontento e le conseguenti ribellioni delle classi subalterne e schiavizzate erano ancora più diffuse e frequenti di quanto viene raccontato. Fin dalla nascita dello schiavismo non è passato giorno senza che la scintilla della rivolta brillasse. Nonostante lo schiavismo fosse basato su una forma d’«economia dello sfinimento» che sfiancava i corpi e le menti, il fuoco della rivolta restava accesso. Il discorso di Sojournes Truth è una prova di questa resistenza e della precocità dello sviluppo di un pensiero femminista intersezionale e situato. Il ritardo nella diffusione di una prospettiva femminista intersezionale è chiaramente un differimento voluto, cercato: non si è trattato di un indugio spontaneo. Il potere egemonico, quello esercitato dagli uomini bianchi eterosessuali e ricchi, ha messo a silenzio queste istanze. Anche una forma malcelata di razzismo da parte di quel femminismo bianco, occidentale e universalista è responsabile di questo ritardo; quel femminismo per cui l’emancipazione della donna (bianca) era la sola e unica priorità.
Grande ammiratrice di Audre Lorde, poeta e ricercatrice femminista nera, lei prende come esempio la presentazione che nel giugno del 1981 Lorde tenne alla National Women’s Studies Association Conference, a Storrs nel Connecticut parlando degli «usi della rabbia». Quanto la demonizzazione della carica collerica toglie potenza alla rivolta delle donne e quanto la pratica della collera può rappresentare una risposta ai razzismi?
La sua domanda solleva varie questioni: la prima legata all’idea universalista secondo cui le donne siano naturalmente portate alla sottomissione e all’accettazione della loro condizione. La seconda, in qualche modo conseguenza alla prima, secondo cui le donne che invece si risolvono a esternare la propria rabbia siano delle pazze, delle isteriche e certamente non abbastanza femminili o paghe della loro condizione in quanto donne. Quando Audre Lorde parla del diritto alla rabbia non lo fa per inneggiare alla violenza o per accettarla, ma per legittimare la rabbia di quelle donne che non accettavano i ruoli imposti. La rabbia è la condizione necessaria per tenere viva quella forza che permette di creare e di mettere in atto delle strategie di resistenza; la forza che autorizza a inventare i metodi per denunciare, arginare e neutralizzare la violenza subita. Le donne non dovrebbero vergognarsi della propria rabbia, anzi dovrebbero coltivarla e cercare di «tenere» contro chi sceglie di silenziarle e silenziarla. Conoscere la genealogia della rabbia e quella della lotta ci permette di considerare e di accettare il nostro punto di vista da una prospettiva situata, quella dell’amefricanità.
Quando parla dell’utilità delle «quote razziali» cita il concetto di «equità aristotelica», fondata sulla «discriminazione positiva». Cosa vuole intendere? Ci può parlare dell’importanza delle quote razziali in Brasile e dell’evidenza del «debito storico» dello stato nei confronti delle classi razzizzate?
Parlando del paese da cui provengo, il Brasile, non ho remore a dichiarare che i sistemi gerarchici di classe e di genere sono solidamente radicati. Come è possibile dunque avere le stesse possibilità partendo da basi diseguali? Mentre i gruppi previlegiati pensano alla meritocrazia e alla categoria di equità, le classi più povere sono consapevoli che la mobilità sociale continua a essere un miraggio. Tra l’avere delle capacità e l’avere delle opportunità reali per sviluppare queste capacità c’è una grande differenza, bisogna ribardirlo. Le quote razziali e la loro necessità aderiscono in pieno al pensiero aristotelico di discriminazione positiva. Per uno stato che si dichiara democratico, il debito storico dello stato brasiliano nei confronti della popolazione nera e autoctona resta un’evidenza e una priorità.
Lei constata una grande confusione attorno al mito della «donna moderna». Tra i valori democratici e quelli capitalisti. Fa riferimento all’amalgama tra emancipazione e ascensione economica. Il femminismo decoloniale non guarda alla sola acquisizione della parità dei diritti, ma soprattutto al tentativo di rompere con le logiche dell’oppressione. Crede che queste due prospettive possano coesistere?
Non possano coesistere finché si crederà che il progresso sia legato al mantenimento delle diseguaglianze a vantaggio e beneficio dei gruppi sociali dominanti. Il Brasile è uno stato in cui il tasso di povertà resta altissimo. La convinzione che, possedendo ad esempio un cellulare di ultima generazione, si sia andate e andati oltre la soglia della povertà è seducente ma menzognera. L’idea che l’«arrivare» o il possedere gli stessi diritti nei confronti dei beni d’acquisto delle classi bianche e privilegiate sia una liberazione dalla povertà è un abbaglio. Significa inoltre sentirsi parte di un sistema che è nato e continua a basarsi sulle discriminazioni di classe e di genere e non avere la volontà di trasformarlo. Le pratiche del femminismo decoloniale vedono accanto all’antisessismo lo sviluppo di una resistenza nei confronti delle istanze neocoloniali e neoliberiste. Per sradicare il razzismo bisogna allora avere il coraggio di voler rovesciare tutto il sistema capitalista.
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