Con le eccezioni di Vaticano e Filippine (ma solo per l’80% cattolico della popolazione), il divorzio è un diffuso e legalizzato quasi ovunque sebbene molti sono ancora i paesi in cui il divorzio è progettato a misura di maschio. Al contrario, alle nostre latitudini, la conquista del diritto a divorziare è stata una vittoria soprattutto per le donne e i movimenti femministi. Lo spiegano molto bene Edoardo Novelli e Gianandrea Turi con un volume appena uscito per Carocci – Divorzio, storia e immagini del referendum che cambiò l’Italia (pp. 224, euro 24) – ricostruendo non solo la vicenda della legge ma incardinandola nel contesto sociale e politico di quegli anni.

NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO italiano, infatti, il divorzio è strettamente legato alla campagna referendaria che si concluse giusto cinquant’anni fa con la vittoria dei No all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini approvata quattro anni prima. In realtà la battaglia divorzista era un’antica rivendicazione anticlericale di fine Ottocento – la prima proposta di legge è datata 1878 – su cui l’avvento del fascismo avrebbe messo una pietra tombale grazie a quei Patti Lateranensi ancora in auge.
Nei lavori per la Costituente, le sinistre sono riuscite a non costituzionalizzare il matrimonio concordatario, quello «finché morte non vi separi», ma la possibilità di sciogliere il matrimonio sarebbe restata a lungo prerogativa della Sacra Rota oppure l’esito di procedimenti all’estero solo per ricconi. Perché anche i meno abbienti potessero divorziare ci sarebbero voluti altri ventidue anni con uno sprint tra il 1° ottobre 1965 – quando venne presentato il progetto di legge firmato dal deputato socialista Loris Fortuna – e il 1° dicembre 1970 quando, al termine di una seduta di diciotto ore, passò finalmente la legge in fondo a cinque anni di eccezionale vivacità del fronte divorzista: protagonista fu soprattutto la Lid, Lega italiana per l’istituzione del divorzio, animata dai radicali di Marco Pannella, assieme all’Udi, con il sostegno di alcuni giornali anticonformisti, L’Espresso e il settimanale Abc, e con il ricorso a pratiche non violenta ma clamorose (scioperi della fame, cene divorziste con personaggi famosi, sit-in, occupazioni simboliche, forme di resistenza passive) che si sono intrecciate con i movimenti sociali e studenteschi.

TUTTAVIA, pochi mesi prima, nel maggio 1970, la Dc aveva spinto per approvare l’istituto del referendum proprio per tentare la prova di forza alle urne. Ne sarebbe scaturita una stagione formidabile che avrebbe mobilitato l’intera società e l’industria dell’immaginario. Da un lato Dc, Vaticano e Msi (allora molto indaffarato in alcuni suoi settori nel fiancheggiamento della strategia della tensione), dall’altro radicali, Pci, Psi, laici, quella che allora si chiamava «nuova sinistra» e il movimento femminista appena nato e già caricato dalla polizia a Campo de’ Fiori. Da un lato una predicazione oscurantista giocata anche con fake news sulla paura del caos e del bolscevismo, dall’altra un Paese che, dopo l’autunno caldo e il lungo ’68, desiderava un altro modello di sviluppo anche per quel che riguarda i rapporti tra le persone.
Il 12 e 13 maggio votarono più di 33 milioni di persone, l’87,72%. Il No vinse con il 59,26%. Tutto ciò Novelli e Turi lo raccontano anche con un apparato iconografico notevole che restituisce – con i migliori crismi dei cultural studies e della social history – clima e contesto di un periodo che solo una narrazione in malafede si ostina a bollare come anni di piombo.
L’onda lunga di quella vittoria si sarebbe riflessa su altre conquiste sociali e civili fino alla sconfitta degli anni ’80.