Distillare il piacere: il Cognac
La visita Ricco di storia e di arte, lo Château Royal diventa nel 1795 la sede centrale della fabbrica
La visita Ricco di storia e di arte, lo Château Royal diventa nel 1795 la sede centrale della fabbrica
James Stewart nella scena finale de La finestra sul cortile del grande maestro del brivido Alfred Hitchcock propone a Grace Kelly alias Lisa di bere un Cognac, una volta scoperto il mistero del vicino che abitava nella casa di fronte. Attualmente, molti di noi si sentono nella situazione del fotoreporter newyorkese Jeff che per via di una gamba rotta è costretto a rimanere confinato in casa e per passare il tempo osserva il suo vicinato con un binocolo e la sua macchina fotografica con tanto di teleobiettivo. Ora, non vogliamo dire di fare lo stesso, cioè di spiare i vostri vicini, quanto di seguirlo, forse, in quell’intento finale, di godersi un buon goccio in compagnia.
Perché, per quanto ci riguarda, finalmente, dopo aver visitato una casa di produzione del liquido ambrato in Francia, possiamo comprendere quell’espressione di piacere che tante volte abbiamo visto sui volti sul grande schermo che era sempre rimasta, quella sì, un vero mistero, per noi, non potendo immaginare cosa significa bere un sorso di buon Cognac per rilassarsi. Piacevolmente.
Torniamo indietro allora, nella cittadina francese che si chiama – come dubitarne? – proprio Cognac!
Per ironia della storia in quel castello che nel Mille servì come protezione dall’invasione di Inglesi e Vichinghi, nel Settecento era giunto un barone di origini vichinghe (!) di nome Otard a salvarne la magnifica costruzione rinascimentale, rinnovata nel Cinquecento con tanto di progetto di sala con singolari volte a V disegnate da Leonardo da Vinci. Oggi, lo Chateau Royal de Cognac figura tra le sedi dei massimi marchi del Cognac nella cittadina situata sulle rive della Charente, il fiume usato per trasportare le merci fino al porto di Rochefort, dal quale poi salpavano le grandi navi verso le Americhe.
La nostra visita guidata era fissata per le quattro del pomeriggio, un pomeriggio dapprima solare e poi uggioso che rendeva l’atmosfera particolarmente intrigante per entrare in un edificio così ricco di storia. Qui era nato François I nel lontano 1494 dopo che il conte Jean de Valois aveva fatto ricostruire il castello, come già detto, adibendolo a residenza famigliare. Nel corso del suo regno, François I, grande amante delle lettere e delle arti, promosse la cultura in tutto il paese e ospitò diversi artisti e filosofi nel castello, dove sempre tornò nel corso della sua vita, sebbene ne avesse fatto costruire tanti altri in tutta Francia.
Il giovane barone Otard arrivò a Cognac nel 1795 (era nato in un paese vicino da una famiglia migrata dalla Gran Bretagna e all’età di trentadue anni aveva preso in mano l’azienda paterna fondata nel 1760) e acquisì il castello ormai in stato di abbandono, divenuto proprietà statale durante la rivoluzione francese, per farne la sede della sua Maison de Cognac. Aveva capito da subito che tra quelle mura, grosse e resistenti, la sua acquavite poteva maturare nelle migliori condizioni tra umidità e temperatura costante, oltre a essere quel luogo il punto di partenza ideale per le consegne del prodotto finito, via fluviale prima e via mare, poi.
Siamo entrati nella prima sala, per dare il via al giro nel complesso storico, prima di scendere nelle cantine, dove giace nelle botti il prezioso liquido ricavato dai vigneti di uva bianca del tipo Ugni (usata quasi all’ottanta per cento per farne Cognac, ma si vuole nuovamente passare alla Folle blanche, storicamente molto diffusa). Abbiamo incontrato tanti vigneti lungo la strada per arrivare sin qui, attraverso la collinare campagna della Charente, nella regione Nuova Aquitania nel centro ovest della Francia, a breve distanza dal maestoso oceano Atlantico.
Ebbene da subito si sente un leggero profumo di alcol. Sorride la nostra simpatica guida, quando glielo facciamo notare, essendo lei stessa viticultrice della zona, e spiega che si tratta della «part des anges» ancoratasi ai muri.
La «parte degli angeli» (chi ha visto l’omonimo film di Ken Loach sa già di cosa stiamo parlando): è quel due per cento di alcol che evapora nel corso della maturazione dell’acquavite, a sua volta è cibo prediletto di un minuscolo fungo che si annida nei muri delle case e dei tetti ricoprendoli con una patina nera. Infatti, leggenda narra, che non era mai stato facile nascondere alle autorità le eventuali produzioni clandestine… e nelle cantine del castello vedremo tante mura annerite. Non vale la pena ripulirle, ci viene precisato, tanto si riproduce nel giro di poco.
Ecco aprirsi le due enormi sale di rappresentanza con le volte di Leonardo da Vinci: alle pareti vicino alle finestre si notano tanti segni sui muri. Incisioni da parte di visitatori irrispettosi? No, ci viene detto, a metà del Settecento queste sale ospitarono una prigione per detenuti. Infatti, si notano silhouette di navi, firme con nomi e qualche serie di linee verticali, quelle tipiche da giorno per giorno da scontare. Raccapricciante! Il pensiero che possa averlo inciso qualcuno che era lì, a contare davvero quei giorni… Come facciamo noi, oggi, nelle nostre case, durante il periodo di isolamento a causa del virus della Sars-CoV-2. Non avevo mai visto nulla di simile, prima, e sebbene ripuliti e contestualizzati, questi segni hanno il potere di irradiare sofferenza e disperazione umana a distanza di centinaia di anni.
Ma fu la bellezza delle volte magnifiche ideate da Leonardo a convincere il Barone Otard a comprare il castello che al contempo rispondeva al suo bisogno pratico di uno spazio sufficientemente grande per le botti pronte da consegnare! Da questa sala scende una scala a chiocciola per arrivare nel sottosuolo, dove si aprono lunghi corridoi, bui, umidi, dall’ancor più forte odore di alcol. Scorgiamo tantissime botti depositate, dotate di cifre e codici che indicano rispettivamente anno di vendemmia e classe del vitigno. Nel salone successivo ci viene spiegata la distillazione secondo il metodo charentais, ossia a doppio riscaldamento.
L’alambicco in rame esposto mostra un imbuto di entrata, nel forno sottostante avviene la bollitura, quindi ci sono i tubi per l’evaporazione e alla fine c’è la raccolta del vapore in un altro recipiente. Dopo la prima volta, il procedimento viene ripetuto, e in seguito si raccolgono separatamente «testa», «coda» e «cuore», ossia: la prima e l’ultima uscita dal recipiente finale vengono scartate, mentre il «cuore» viene versato nelle botti, tutte rigorosamente di legno e costruite secondo un metodo particolare. Il tipo di legno usato è fondamentale, invece, dal momento che l’osmosi di essenza trasmette al Cognac un certo tipo di aroma di base. La durata minima di maturazione è fissata in due anni e mezzo, tutto il resto avviene per migliorarne la qualità. Pare ovvio che più il Cognac invecchia, più sarà buono, ma è importante sapere che questo discorso vale unicamente finché rimane nelle botti; una volta imbottigliato l’invecchiamento non incide più sulla qualità.
Dopo i primi due anni interviene il cosiddetto esperto «miscelatore», che testa il nettare, aggiunge eventuali aromi, crea le miscele – essendo questo il vero segreto di un buon Cognac, dove l’anno di riferimento indicato sull’etichetta è e rimane sempre quello della parte più giovane.
«Testa» e «coda» vengono ridistillate oppure usate per altri scopi. Qual è la differenza tra le tre parti? La impariamo annusando il liquido bianco contenuto in tre piccoli bicchieri, ed è davvero enorme!
Dopo aver attraversato altre ampie cantine con centinaia di botti, risaliamo un’altra scala per giungere in una sala, dove sono esposte alcune foto storiche e numerosi manifesti pubblicitari d’epoca. Sullo sfondo c’è un bancone lungo e stretto, dove su entrambi i lati sono poggiati tre bicchieri contenenti liquido ambrato: anche qui possiamo annusare le differenze, stavolta quella che esiste tra un Cognac invecchiato di due anni, di quattro e di dieci. Successivamente, nella hall di entrata si passa alla degustazione vera e propria. Inutile dire che un Cognac giovane è poco caratterizzato, mentre già il profumo di quello invecchiato di quattro anni contraddistinto dalla sigla VSOP (Very Superior Old Pale) sa leggermente di caramello, un sapore che andrà espandendosi nella bocca intera, una volta bevuto un sorso, per rimanere a lungo, dopo, come sensazione di gusto e benessere. Per non parlare di un XO (Extra Old) invecchiato di oltre dieci anni…
Non c’è che dire, la sapeva lunga James Stewart, e non solo lui!
Come nasce il metodo charentais della doppia distillazione? Leggenda narra che un cavaliere, Jacques Maron de la Croix de Segonzac, uomo molto credente, avesse fatto un sogno, nel quale incontrò Satana che gli chiese la sua anima. Il diavolo lo immerse in un paiolo pieno d’acqua messa a bollire. L’anima del cavaliere pio, forte e di grande resistenza, resistette però a quella «prima cottura», appunto, perché fermamente ancorata al corpo di cui era ospite. Il diavolo, più ostinato che mai nel perseguire il suo scopo, decise allora di ricorrere a una «seconda cottura». Ma a quel punto il cavaliere si svegliò… In seguito, poi, lui stesso avrebbe applicato quell’idea di «doppia bollitura» al suo vino charentais.
Storicamente parlando, si arrivò alla distillazione di quel vino per meglio conservarlo. Nacque come vino nel terzo secolo d.C. durante l’impero romano, quando Marco Aurelio Probo nel corso della sua breve amministrazione dei territori conquistati aveva concesso ai viticultori gallo-romani la produzione e la diffusione di vino senza un’ulteriore ricarica fiscale. Oltre mille anni più tardi, il liquido alcolico era ormai molto diffuso nel Nord-Europa, benché spesso arrivasse a destinazione piuttosto malandato e acidulo. Per di più, la concorrenza con l’assai migliore vino Bordeaux era spietata, motivo per cui si decise di provare a bollirlo prima di trasportarlo nelle botti.
Inaspettatamente questa versione di «vino bollito» ebbe grande successo tra la gente, soprattutto nei Paesi Bassi, dove si beveva dappertutto – nelle taverne, sulle navi, nei locali dei porti – quel vin brulé (di qui la denominazione inglese, brandy) allungato con acqua. Usanza, questa, di allungare con acqua, praticata ancora oggi con altri distillati, basti pensare all’Ouzo greco o al classico Pernod francese.
Sempre nel XVII secolo si passò alla distillazione semplice per un ulteriore motivo altrettanto semplice: trasportarne l’essenza avrebbe occupato meno spazio durante il trasporto. Furono così costruiti i primi alambicchi da parte degli olandesi, i quali poi commercializzarono questo alcol in forma concentrata da bere, anch’esso allungato con acqua per ricavarne una bevanda simile all’originale, il vino. In quest’ambito, poi, quasi per caso si scoprì che, trasportandolo all’interno di botti in legno di quercia, questo liquido assumeva un ottimo sapore e lo si poteva bere anche nella sua forma più pura. E ancora: più lunga era la via del trasporto, più buono era il prodotto finale! Piano piano fu esportato e apprezzato in tutta Europa, soprattutto in Gran Bretagna, dove agli inizi del Settecento per cause varie si era verificata una diminuzione di alcol prodotto sulla base di distillazione di cereali e quindi c’era stata una grande richiesta di quel surrogato, da subito benvenuto. Di qui la sperimentazione di applicare anche a quell’acquavite di derivazione francese la doppia distillazione che era uso fare per produrre il whisky irlandese. Il gioco era fatto! Quel secolo vide un vero e proprio fiorire di quell’attività e numerosi ricchi commercianti inglesi si trasferirono direttamente in Francia, nella zona attorno alla cittadina di Cognac, per fondare le varie aziende: Jean Martell creò la Martell, Richard Hennessy la Hennessy, ecc.
Essendo il vino ottenuto dalle uve della zona piuttosto acido e poco alcolico, già storicamente si usava quella «acqua della vita» come aggiunta per altri vini, onde migliorarne la conservazione.
Il Cognac, comunque, è tale non unicamente per il procedimento che altrove si può dire soltanto Brandy (vedi il Vecchia Romagna), ma soprattutto per le caratteristiche del terreno su cui crescono i vitigni e di cui si nutrono i chicchi: sono tutti terreni di tipo calcareo che geologicamente risalgono al cretaceo superiore (dai 100 ai 60 milioni di anni fa) e al giurassico superiore (dai 140 ai 160 milioni di anni fa). Alcuni terreni si contraddistinguono anche per essere marmosi e/o argillosi. Naturalmente c’è anche l’influenza del clima oceanico, data la vicinanza con l’Atlantico; la zona vanta infatti picchi di temperature nei mesi estivi tra giugno e agosto, oltre a una regolare altissima esposizione al sole con altrettante piuttosto regolari precipitazioni non eccessive. Chissà se col cambiamento climatico generale non cambierà però anche qui qualcosa? Speriamo di no….
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