È mezzogiorno. La Piazza Rossa è piena di gente della provincia. Polizia, soldati in ferie, escursioni. Fa caldo. La zona recintata è deserta, tranne che per la coda al mausoleo di Lenin. Alle 12 c’è il cambio della guardia” racconta Natalja Gorbanevskaja.

Era passato da poco mezzogiorno il 25 agosto del 1968, appena quattro giorni dopo l’invasione della Cecoslovacchia delle truppe del Patto di Varsavia, quando Natalja assieme Kostantin Babizkij, Vadim Delon, Vadim Dremljug, Pavel Litvinov e Viktor Fajnberg srotolarono sulla Piazza Rossa uno striscione contro l’invasione che recitava “Per la vostra e la nostra libertà”. La dimostrazione dei dissidenti durò pochi minuti. Un auto del KGB raggiunse presto i dimostranti, che vennero arrestati.

L’ex generale Petr Grigorienko, uno dei più famosi dissidenti sovietici che propugnava il “ritorno a Lenin”, definì nelle sue memorie i sette dissidenti “degli eroi”. E purtroppo non era una esagerazione: a Fajnberg in commissariato vennero fatti saltare a calci e pugni alcuni denti e in seguito sarà inviato in ospedale psichiatrico a Leningrado: vi passerà oltre quattro anni della sua vita. Gli altri manifestanti vennero condannati alla prigione per 3 anni. Solo Gorbanevskaja che era in fase di allattamento venne considerata “schizofrenica” e rispedita a casa.

La vicenda, per lungo tempo, rimase sconosciuta all’opinione pubblica sovietica e solo pochi attraverso i “Samizdat” o “Voice of America” vennero a sapere dei “sette ribelli”.

Grigorienko racconta che in quella primavera a Mosca “la simpatia per la Cecoslovacchia era così grande che sembrava che si dovesse essere solo pazzi per rischiare l’intervento. In metropolitana, sui treni, in filobus, per strada, se qualcuno parlava degli eventi cecoslovacchi, e se ne parlava molto spesso, la gente ascoltava profondamente interessata e comprensiva… Malgrado ciò la stampa sovietica non teneva conto di ciò e continuava a suscitare sospetti e seminare sfiducia nei confronti della leadership cecoslovacca”. Era quell’anelito, “quell’internazionalismo dal basso” che aveva condotto i dissidenti a sintetizzare il filo che legava Mosca con Praga in quello striscione “per la nostra e la vostra libertà”.

Tra i russi crebbe dopo di allora allora un senso sotterraneo di colpa per quanto era successo a Dubček e i suoi compagni. “Quando andavamo in Cecoslovacchia per vacanza la gente ormai ti guardava storto. Si capiva che eravamo accolti obtorto collo” ricorda Oksana, allora figlia di un grande papavero del Cremlino.

Oggi il clima a Mosca è diverso anche se l’estate è afosa come quella di 50 anni fa. Molta gente è in ferie, chi in dacia chi nei resort low-cost turchi. Le tv non hanno nel palinsesto nessun speciale per l’invasione della Cecoslovacchia nei prossimi giorni e neppure la carta stampata appare molto interessata a ricordare come finì la “primavera di Praga”. Anzi. Si fanno sempre più forti le voci “revisioniste”. Secondo tali vulgate la “Primavera di Praga” non fu altro che l’esperimento pilota della NATO delle “rivoluzioni colorate” o ”arancioni” di oggi dall’Ucraina alla Libia, per rovesciare allora gli Stati socialisti. Tali inedite interpretazioni hanno però rischiato di far esplodere una crisi diplomatica tra Federazione Russa e Repubblica ceca. Il 21 novembre 2017 in occasione della vista a Mosca del capo di Stato ceco Miloš Zeman, uscì un articolo sul sito della tv in streaming Zvezda, firmato da Leonid Maslovskij, in cui si affermava che “la Cecoslovacchia dovrebbe essere grata all’URSS per essere stata invasa nel 1968”. Secondo l’autore “la crisi in Cecoslovacchia venne determinata dall’arrivo al potere in Unione Sovietica di Nikita Khruščev… una grande vittoria della agenzie di intelligence occidentali e della sua Quinta Colonna all’interno dell’URSS.”

L’articolo attirò l’attenzione del governo della Repubblica ceca. Secondo i resoconti dei media di Praga, il presidente Zeman salì su tutte le furie e definì l’autore dell’articolo “un giornalista pazzo senza cervello”.

Zeman sollevò la questione dello scritto successivamente con il premier russo Dmitrij Medvedev. Medvedev garantì al presidente ceco che il testo “non riflette la posizione ufficiale” della Russia, formulata ufficialmente nell’accordo del 1993 in cui si affermava che “l’invasione sovietica della Cecoslovacchia rappresentò un uso inaccettabile della forza”.

In controtendenza e controcorrente, proprio questa estate, cinque registi di Mosca e San Pietroburgo sono saliti sul palco del Gogol’ Center di Mosca per presentato cinque diversi progetti di performance sulla manifestazione dei sette dissidenti russi del 25 agosto ’68 sulla Piazza Rossa. E il titolo non poteva essere che “per la nostra e per la vostra libertà”. Un modo per ricordare e attualizzare la lezione e l’importanza dello stare sempre dalla “parte del torto e della libertà” come hanno spiegato nella conferenza stampa di presentazione gli ideatori dell’iniziativa .

Un tentativo di far parlare la storia attraverso la rappresentazione afferma Andrej Makarov, sceneggiatore dello spettacolo: “Abbiamo provato con questo progetto a coniugare la “grande storia” con la storia sociale. Certo, questa è una data molto importante ma non per ciò che la gente ha fatto, ma per il suo significato simbolico. Quindi sì questa è una delle date più importanti nella storia della società russa se parliamo della storia della sua società e non di quella dello Stato”.

 

HIPPIES SOVIETICI

Il movimento della contestazione e della controcultura in URSS dagli anni ’60 e per tutti gli anni ’70 fu molto più radicale di quanto si evince dal recente film Leto (Estate) di Kirill Serebrannjkov recentemente presentato al Festival di Cannes. L’URSS degli anni ’70 fu percorsa, proprio come da noi, da una fitta rete di gruppi hippes, capelloni, formazioni della “nuova sinistra” e anche il fenomeno delle comuni fu esteso ed ebbe caratteristiche peculiari. “Il movimento delle comuni è stato un fenomeno straordinario nella vita sociale dell’URSS durante il periodo del “disgelo”” sostiene Alexander Tarasov autore di un libro sulla sinistra russa. L’idea delle comuni era stata propagandata in un primo tempo dallo scrittore e pedagogo Simon Soloveichik e iniziò ad essere a praticata a Leningrado dal gruppo di Faina Shapiro, per poi svilupparsi in tutto il paese. “Sul piano metodologico, il movimento dele comuni combinava elementi dello scoutismo, della pedagogia della creatività, della psicoterapia di gruppo e dell’attività ludica. Ideologicamente faceva invece riferimento alle idee del “primo Marx”, al rivoluzionarismo romantico e all’umanesimo esistenzialista” sostiene Tarasov.

Idee “comunitariste” trovarono spazio, a partire dal 1969, anche nel movimento hippie sovietico. Sviluppatosi inizialmente nelle repubbliche baltiche e in Ucraina occidentale, il movimento hippie sbarcò a Mosca nel 1970. Uno dei personaggi più in vista di questa variopinta tribù era Alexander Podberezkij (“Stalker”) le cui velleità letterarie trovarono espressione in un manifesto in cui cercava di fondere materialismo dialettico, orientalismo e cosmologia. Inizialmente gli hippie di Mosca si denominarono “Il Sistema” e tendevano a riprodurre in modo caricaturale le posture del movimento americano. Jeans consunti, capelli lunghi, mitizzazione in chiave liberante della musica rock e dell’uso delle droghe fu il classico cocktail che attecchì anche a Mosca. Nel 1971 gli hippies della capitale organizzarono persino un happening contro la guerra del Vietnam che la polizia, con benevolenza, evitò di sciogliere. Per il resto i rapporti tra “capelloni” e il KGB furono pessimi. Molti hippies, per i loro “comportamenti antisociali e piccolo-borghesi”, furono arrestati, rinchiusi in ospedali psichiatrici oppure spediti alla leva obbligatoria in località sperdute. Paradossalmente gli hippies russi però avevano facilità a entrare in possesso di droghe. Infatti nelle repubbliche sovietiche del Centroasia i contadini tradizionalmente coltivavano canapa indiana e oppio. Terje Toomistu, ex hippie estone che ha realizzato un documentario sul fenomeno uscito nel 2017 ricorda come “il KGB era completamente impreparato ad affrontare il tema delle droghe e quindi cercavano nelle abitazioni degli hippies solo letteratura vietata, disinteressandosi per ignoranza dell’hashish che magari era sotto il loro naso”. Ma anche che molti giovani non era preparati all’uso di stupefacenti: alcuni giovani perdettero la vita per overdose dopo massicce bevute di tè all’oppio.

A partire dal ’68 si formarono anche molti gruppi rivoluzionari non appartenenti alla leva della dissidenza tradizionale. Nel 1975, per esempio, i liceali Ilya Smirnov e Grigory Loyferman fondarono il club “Antares”. “Antares” si considerava un’organizzazione clandestina e guardava con entusiasmo a esperienze di lotta armata come quelle delle Brigate Rosse e della RAF tedesca. A partire dal 1977 il club entrò in stretta relazione con il movimento delle comuni e degli hippies, prima di finire sotto la scure repressiva del KGB. Proprio quando “Antares”, alla metà degli anni ’70, andava cristallizandosi, venivano arrestati quasi tutti i membri del Partito Neocomunista dell’Unione Sovietica fondato nel 1972-1973 dal liceale Alexander Tarasov e dalla filologa Natalja Magnat. Il gruppo, presente in una decina di città, si rifaceva liberamente a Marcuse, Cohn-Bendit, Che Guevara e Trotsky.

Interessante anche l’esperienza di quella che nel 1976 si proclamò la “Scuola di Leningrado”. Il gruppo si definiva marxista libertario e caratterizzava l’URSS come “capitalismo monopolistico di Stato”. Presto anch’esso si organizzò in comuni. Ridenominatosi “Opposizione di sinistra” nel 1978, il raggruppamento andò incontrò a una dura repressione. Arresti e perquisizioni coinvolsero 40 membri dell’organizzazione. Il principale leader dell’“Opposizione di Sinistra” sarà poi condannato a 5 anni di prigione a “regime duro”.

ROCK SOVIETICO

Fino alla metà degli anni Sessanta la musica di protesta o alternativa in URSS si espresse attraverso la “canzone d’autore”. L’autore più conosciuto, anche all’estero, fu sicuramente Vladimir Visotskij ma fu molto celebre in quel periodo fu anche il georgiano Bulat Okudzhava. Questi due chansonnier appena tollerati dalle autorità per la loro salace critica della società sovietica conquistarono un’ampia popolarità in URSS soprattutto grazie al passa parola e i loro concerti semi-clandestini. Ma solo grazie agli stranieri giunti a Mosca per il Festival della Gioventù nel 1957, gli adolescenti sovietici vennero a conoscenza dell’evoluzione che stava avendo il blues .

Le prime band rock nacquero nei Paesi Baltici: nel 1962 in Lettonia apparvero Melody Makers e nel 1964 in Estonia si formarono gli Juniors. In tutte le repubbliche baltiche a metà degli anni ’60 si tennero anche festival musicali.

L’interesse per il rock crebbe enormemente attraverso il fenomeno della “beatlesmania” che riuscì a superare la “cortina di ferro” grazie a alle trasmissioni di “Voice of America” e al contrabbando dei dischi particolarmente sviluppato nei porti del Baltico e di Odessa. Pionieri del rock moscovita furono i “Sokol”, una cover band formata a Mosca alla fine del 1964 da Yuri Ermakov.

Con l’emergere dei movimenti hippies lo Stato sovietico non si limitò più alle rampogne ideologiche contro “il giovanilismo capitalista” ma passò direttamente alla repressione nei confronti del mondo della musica alternativa. I concerti iniziarono ad essere dispersi dalla polizia e i musicisti arrestati. La “Federazione Pop” venne sciolta e suoi fondatori Yuri Aizenshpis e Sergej Artemyev finirono in prigione.

È solo nei primi anni ’70 però che un vero e proprio rock sovietico con caratteristiche melodiche proprie e testi in lingua russa iniziò a crescere. Artem Troitskij nella sua i storia del rock sovietico ha scritto: “Il picco del “risveglio nazionale” del movimento rock si verificò tra il 1970 e il 1972 e il gruppo più rappresentativo di quell’epoca furono forse i Mašina Vremini (Macchina Del Tempo)”, il cui leader e cantante era Andrej Makarevič ancora oggi personaggio assai controverso per le sue posizioni anticonformiste. “Dietro l’hard rock e alcune belle melodie però quello che importava ai Mašina Vremini erano i testi volti a far riflettere il pubblico” ha sottolineato Troizkij. “Oggi è il giorno migliore/ lascia che le bandiere volino sopra i reggimenti/ oggi è il giorno migliore/Oggi la battaglia è con gli sciocchi /Quando l’ultimo nemico cadde,/ la tromba annunciò la vittoria/Solo in quel momento mi resi conto di quanto poco ci rimanesse”. Questi versi dei Mašina Vremini divennero l’inno di quella giovane generazione sovietica in bilico tra le aspettative degli ultimi scampoli della modernizzazione brežneviana e i primi segni di disagio sociale.

Bisognerà però aspettare gli anni ’80 e la perestrojka per vedere fiorire i semi innestati nel decennio precedente.