«Treviso mi ha dato tanti dispiaceri in gioventù che riceverne ancora mi sarebbe troppo doloroso». Così scrisse Arturo Martini il 3 agosto 1933 a Giuseppe Mazzotti che voleva organizzare, includendo alcune sue opere, una collettiva nella città natale dello scultore. Il critico riuscì nell’intento alle condizioni poste dall’artista che, alla IX mostra trevigiana d’arte, espose in una sala esclusiva nove sculture in terracotta, tra cui la Venere dei porti, acquistata in seguito dal Comune ed esposta per molti anni nell’atrio del Municipio.

Se i rapporti di Martini con Treviso furono sempre complessi (si pensi al resoconto che ne ricavò Comisso nel romanzo I due compagni, dove viene chiamato in causa anche lo sfortunato sodale Gino Rossi), non si può non pensare al fatto che in questa città si svolsero alcune retrospettive fondamentali, come quella del 1967 a Santa Caterina, curata dallo stesso Mazzotti, con allestimento di Carlo Scarpa.

Fu il Figliuol prodigo (1927) l’opera simbolo di tale mostra, riprodotta anche nella copertina del catalogo allestito da Libreria Canova/Neri Pozza (l’editore vicentino pubblicherà un trentennio più tardi il Catalogo ragionato delle sculture, a cura di Gianni Vianello, Nico Stringa e Claudia Gian Ferrari). Tuttavia bisogna precisare che, quasi a compensare l’operato dei concittadini che resero così ostiche le vicissitudini in loco del «mato» Martini, il monumentale gruppo in pietra di Finale, Adamo ed Eva (1931), proveniente dalla collezione Ottolenghi Wedekind di Acqui Terme, venne rilevato nel 1993 dal Museo Bailo attraverso una sottoscrizione pubblica che permise di effettuare anche altre acquisizioni, come il bozzetto in bronzo della Donna che nuota sott’acqua.

Adesso il Museo Bailo predispone la mostra Arturo Martini. I capolavori, ben curata da Fabrizio Malachin e Nico Stringa (catalogo Antiga Edizioni, pp. 280, € 33,00), visitabile fino al 30 luglio, che figura dopo le esposizioni di Canova e Antonio Carlini, considerato il maestro dell’artefice del Tobiolo, quasi a formare un trittico sull’arte plastica veneta. Sono esposte in tutto 270 opere, di cui 151 di proprietà dello stesso museo, lungo un tragitto che, da piano terra, si snoda alla sala superiore, dove sono visibili altri lavori di artisti trevigiani, tra cui quelli del succitato Gino Rossi. Non vi è d’altronde alcun intento cronologico ma un accostamento teso a privilegiare tematiche e materiali che testimoniano la versatilità di Martini (si pensi alle sorprendenti ceramiche e incisioni, nonché ai numerosi, anche se non sempre convincenti, dipinti).

Dalla coppia di Leoni di Monterosso che campeggia all’entrata, ci si inoltra lungo un percorso variegato che non disdegna di documentare aspetti meno conosciuti dell’attività martiniana, come il libretto xilografico Contemplazioni, edito dalla Tipografia dei Fratelli Lega a Faenza nel 1918. Questo liber mutus, composto di sole immagini, si configura infatti come uno dei primi esempi di libro d’artista, «costituito esclusivamente da scritture asemantiche» (Mirella Bentivoglio). Simile a uno spartito musicale in cui si alternano figure geometriche bianche e nere, il volumetto deriva da una lunga, ponderata riflessione sulle derive dell’espressione artistica.

Arturo Martini, «La moglie del marinaio», 1931, coll. priv.

Il motivo della femme couchée serpeggia lungo tutta la produzione di Martini, passando dalle varie versioni della Pisana, qui documentata dal bronzo originale del 1928-’29 e dall’esemplare mutilo in terracotta più tardo, a Il sonno (1933), dalla Donna al sole (1930) alla Donna sulla sabbia (1944) che risulta esserne «un capovolgimento sia posturale che plastico» (Stringa). In tale ambito si inserisce anche la Donna che nuota sott’acqua, realizzata in marmo di Carrara.

Esposta alla Biennale di Venezia del 1942, la celebre scultura era ispirata al film muto White shadows in the South Seas del regista W.S. Van Dyke, le cui sequenze vengono emblematicamente proiettate nella sala che accoglie il bozzetto in bronzo. Quest’ultimo documenta l’idea originaria di sospendere nel vuoto una figura muliebre integra, non più acefala, cristallizzando il movimento degli arti e l’inclinazione della nuotatrice verso un ipotetico abisso.

Le stesse opere monumentali di Martini sono rappresentate da alcune composizioni d’eccezione come Adamo ed Eva, il summenzionato Figliuol prodigo, il calco in gesso a dimensione naturale del Tito Livio (ma è presente anche un bozzetto in bronzo), il cui originale è conservato nella facoltà patavina di Lettere, in aperto dialogo con le soluzioni architettoniche di Gio Ponti e l’affresco di Campigli. Lo straniante gesso in esemplare unico del Sacro Cuore (1929), commissionato dalla Parrocchia di Vado Ligure e poi rifiutato per le sue soluzioni considerate poco ortodosse sul versante teologico, era stato esposto soltanto in due occasioni all’inizio degli anni trenta.

Di qualche anno dopo è la Bagnante al sole, bronzo che si rifà mimeticamente ai modelli di Henry Moore, di cui Martini visitò la personale alla Biennale veneziana del 1930. Da segnalare il Torso di lottatore (1941-’42), marmo che riecheggia la volumetria essenziale degli idoli cicladici. Si vedano inoltre gli estremi approdi della ricerca martiniana, qui rappresentati da alcuni manufatti che si emancipano dal vincolo figurativo come Atmosfera di una testa, Cavallo allo steccato, Scomposizione di toro, degli anni quaranta (l’autore morirà prematuramente nel 1947), orientati a un tardo riconoscimento della decostruzione cubista con addentellati formali che saranno «condivisi» da Lucio Fontana e le cui riflessioni permeano l’anti-pamphlet intitolato La scultura lingua morta, edito in un’oscura tipografia veneziana nel 1945 in soli 50 esemplari. In tale contesto l’autore si chiede «perché la scultura non può fare un pomo?».

Ma l’apice espressivo è costituito dai cosiddetti «teatrini», realizzati in terracotta («scoprì la terracotta come un primigenio scopre il fuoco», precisò Bontempelli), dove sembra concretizzarsi la riflessione sulla composizione plastica innervata in un peculiare contesto architettonico, creando una sorta di trompe l’œil dagli esiti anticonvenzionali, sospesi in una loro poeticissima sensualità.

Spicca al riguardo La veglia, raffigurante una giovane nuda, ripresa di spalle, che si affaccia alla finestra in punta di piedi evidenziando il motivo dell’attesa metafisica, sorta di visione notturna, speculare, eccetto le dimensioni, alla coeva Moglie del marinaio.