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Disfatta sentimentale di una donna in cerca di protezione maschile

Disfatta sentimentale di una donna in cerca di protezione maschile

Narrativa Scritto da Jean Rhys tra fine anni venti e anni quaranta, «Quartetto» ricostruisce la fin troppo scabrosa biografia dell’autrice

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 5 maggio 2013

Primo romanzo di Jean Rhys, scrittrice dominicana nota soprattutto per Il grande mare dei Sargassi, il prequel di Jane Eyre, Jean Rhys, Quartetto (Adelphi, traduzione di Franca Cavagnoli, pp. 172, e16, 00) venne pubblicato dalla autrice nel 1966, quando era in una età ormai avanzata, e divenne subito un testo chiave tanto per gli studi di genere quanto per quelli postcoloniali. Difficile trovare premonizioni del tardo capolavoro in questa opera giovanile, che richiama piuttosto il modernismo tutto al femminile di Katherine Mansfield – soprattutto le deprimenti atmosfere e le sventurate protagoniste di certi racconti dell’autrice neozelandese ambientati nelle capitali europee.

Del resto, Quartetto, prima di una serie di narrazioni al cui centro stanno figure femminili alla deriva, concepite dalla Rhys nel decennio tra la fine degli anni venti e il 1939, ha finora incuriosito critici e lettori soprattutto per gli scabrosi elementi autobiografici che ne costituiscono la trama: vi si raccontano, infatti, gli avvenimenti di un anno piuttosto turbolento per la scrittrice, quel 1923 in cui, rimasta sola e senza mezzi di sostentamento a Parigi dopo l’arresto del marito, Jean Lenglet, accettando l’ospitalità dello scrittore Ford Madox Ford e della di lui compagna, la pittrice australiana Stella Bowen, si trovò invischiata in un ambiguo ménage à trois, destinato a divenire un vero e proprio «quartetto» erotico, dopo la scarcerazione di Lenglet. Non è certo un caso che la storia di questo quadrilatero amoroso sia stata narrata, con diversi accenti, da tutti e quattro i protagonisti: eppure, mentre le opere autobiografiche di Bowen e Lenglet sono pressoché dimenticate e il resoconto di Ford, When the Wicked Man, è relegato tra i lavori minori dell’autore inglese, Quartetto, che è stato anche portato sullo schermo da James Ivory nel 1981, resiste sugli scaffali delle librerie in Inghilterra e continua a essere tradotto all’estero.

Molto più degli elementi biografici pruriginosi presenti nella vicenda, e al di là del parallelo con la storia immaginata in precedenza da Ford in quello che è ritenuto uno dei maggiori romanzi del Novecento, Il buon soldato (confronto più volte proposto per dimostrare come lo scrittore sia arrivato a far combaciare vita e arte, sperimentando nella realtà situazioni che aveva già immaginato nella finzione) quel che attrae nel primo romanzo di Jean Rhys è l’amara rappresentazione della disfatta sentimentale e umana subìta da una donna passiva, in balìa della sorte e alla perpetua ricerca di protezione maschile. Melodia volta a svelare il gioco delle apparenze su cui si fonda la vita sociale, il Quartetto di Rhys enfatizza il fatto che ogni posizione reale nasconde un atteggiamento fittizio, ogni individuo si cela dietro una maschera. Così Marya Zelli, la protagonista femminile, e Lois Heidler (l’alter ego narrativo di Stella Bowen), pur essendo entrambe soggette al dispotismo di Heidler (il Ford del romanzo) reagiscono alla propria condizione subordinata calandosi in ruoli affatto diversi. Se Marya gioca alla «bambina sperduta» – priva di indipendenza economica, sola, bisognosa di protezione – Lois si fa dapprima «padrona» fredda e autoritaria, salvo poi svelarsi complice del maschio dominatore nel tranello ordito per intrappolare la giovane preda. E tuttavia, entrambe le donne appaiono, pur se in maniera differente, vittime della tirannia maschile, impegnate a dilaniarsi in un jeu de massacre, prigioniere incapaci di unirsi nella lotta contro il comune carceriere.

Non a caso, il primo titolo scelto nel 1928 e poi respinto dalla autrice, era Posizioni: il racconto è condotto per larga parte come una partita a scacchi tra un Gran Maestro (Heidler/Ford) e una principiante maldestra (Marya). Grande attenzione è dedicata, di conseguenza, ai movimenti dei personaggi, al continuo avanzarsi e ritrarsi della coppia Heidler, alle mosse goffe di Marya, al ritmo inquietante di una esistenza che pare la resa narrativa di un finale di partita in cui re e regina neri si trovano in posizione vantaggiosa. E se negli stessi anni e negli stessi luoghi, per gli espatriati senza fede di Hemingway il codice di comportamento onorevole era circoscritto dalle ferree leggi della tauromachia, tra gli esuli sradicati di Rhys il mantenimento dell’onore può limitarsi all’ottemperanza rigorosa delle mosse concesse al giocatore sulla scacchiera.

Si tratta, dunque, di saper calcolare le posizioni degli avversari, piuttosto che di analizzarne le motivazioni. A Marya, che ora agisce di istinto, ora si perde in sterili riflessioni, lamentando una vita deprimente e disperata, si oppone il cinico realismo di Heidler, «impenetrabile e vigile come un giocatore di scacchi che ha appena fatto una buona mossa»; al sofisticato intrigo delle posizioni prefissate sulla scacchiera, l’assoluta mutabilità della vie de bohème. Dallo scontro di queste realtà antitetiche non può che emergere l’impossibilità, da parte della più sprovveduta, Marya, di comprendere le regole del gioco che tutti sembrano conoscere e che anche Stephen, suo marito, una volta uscito dal carcere, capisce perfettamente, pur non accettandole.

È interessante notare come, imponendo il titolo Quartetto a partire dall’edizione americana del 1929, Rhys conferisca dignità pari a quella degli altri tre protagonisti alla evanescente figura di Stephen, che appare compiutamente in scena solo verso la conclusione del romanzo e finisce per reagire con la fuga alla desolazione in cui si trova coinvolto. Sottolineando in questo modo la responsabilità di tutti e quattro i personaggi nella vicenda, la loro partecipazione in veste di comprimari alla tessitura della trama, la scrittrice evita l’omologazione del suo romanzo con l’ennesima variazione sul tema banale del triangolo erotico.

La scelta del termine «quartetto» rimanda anche volutamente al mondo musicale, a suggerire che la narrazione si costruisce come una partitura eseguita da quattro diversi strumenti, non sempre in armonia, anzi, spesso dissonanti: per Marya, Lois è «uno strumento concepito, forgiato e affilato per un unico scopo» e Heidler, «lo stesso accordo ma suonato in chiave più bassa». A sua volta, Marya, che sembra non avere coscienza della propria individualità, si lascia «suonare» dagli uomini che la circondano, cercando la propria identità in un rapporto di soggezione all’universo maschile. Dominata da un orrore esistenziale con il quale è impossibile scendere a patti – «Con la fame, il freddo o la solitudine potevi ragionare, ma con quella paura no» – Marya sperimenta una discesa assurda verso la perdita dell’Io e la progressiva disintegrazione della sua personalità già frammentata. Per lei la vita è un sogno spezzato e illogico: una visione riflessa in uno specchio rotto, incompleta e frantumata. Una visione che Rhys rende soprattutto attraverso un attento uso delle parole, soppesate a una a una in vista di un effetto totale, volto non tanto alla progressione e alla soluzione dell’intreccio (di per sé alquanto esiguo), quanto all’accumulo di risposte emotive – dei personaggi (soprattutto della protagonista), dell’autrice (celata dietro una narrazione falsamente onnisciente) e di chi, leggendo, si trova a sprofondare in un mondo in cui l’individuo sembra aver perso – o non aver mai posseduto – la capacità di controllare il proprio destino.

Opera aperta, ma aperta sul nulla; narrazione di fronte alla quale è impossibile farsi complici sia dell’autore sia della protagonista, Quartetto ci conduce lungo una china dolorosamente prevedibile fin dalla prima pagina, denunciando l’assurda tragicità dell’esistenza umana in un universo vuoto, sconvolto e lacerato. Franca Cavagnoli riesce mirabilmente a tradurre questo linguaggio in cui ogni parola è calibrata come un passo nella discesa della protagonista verso l’abisso o, se si preferisce, come una nota nella cupa musica suonata dal quartetto, e ci consegna intatta la prima di quelle storie senza gloria, oltre la morale comune, che imposero Jean Rhys all’attenzione del pubblico modernista, e dalla cui lettura non si può che uscire lacerati e sconfitti.

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