Che relazione c’è fra lo spreco di alimenti e l’educazione alimentare in un paese come l’Italia dove il cibo è in cima alle classifiche di social, talk, blog, format tv e dove il patrimonio alimentare ed enogastronomico non ha pari nel mondo? Certo, la parola «cibo», quattro-lettere-quattro, è tanto abusata da aver perso, quasi del tutto, il significato originario. Non sappiamo più se mangiamo per vivere o se viviamo per mangiare. Spendiamo di più per metterci a dieta e per curarci dalle malattie derivanti dal mangiar male che per acquistare gli alimenti. Non siamo più ciò che mangiamo (Ludwig Feuerbach), ma ciò che non mangiamo. Le «tribù alimentari» (Marino Niola) che (si) negano qualche alimento crescono rapidamente. Li ho chiamati negani e senzani: senza zucchero, senza grassi, no ogm, no carb, no carne… Cosa (ci) è successo?

Una volta, diciamo fino al 1963, c’era l’economia domestica insegnata per generazioni nelle medie inferiori. Si impartivano le competenze per la vita famigliare e di comunità: alimentazione, gastronomia, igiene, puericoltura, merceologia, programmazione economica. Da allora, e sono passati solo 60 anni, le cose sono molto cambiate. Fra cibo spazzatura, nevrosi alimentari, binge eating, ossessioni salutistiche, messaggi nutrizionali ossessivi, il cibo ha progressivamente perso i suoi riferimenti fondamentali e codificati nel tempo. Così come è mutata la famiglia e la comunità in cui viviamo.

Non abbiamo più contezza del privilegio di vivere nel Belpaese, «sede» oltretutto della Dieta mediterranea, riconosciuta patrimonio immateriale dell’umanità. Ma assai poco praticata più. Come scriveva la sconosciuta Isabella Mary Beeton nel suo manuale di economia domestica pubblicato nell’anno dell’Unità d’Italia: «Mangiare è un privilegio della civiltà. La nazione che sa mangiare ha imparato la lezione principale del progresso». E si era ben prima della pubblicazione del famoso manuale di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), il più straordinario long seller culinario nato dalla collaborazione con i lettori che hanno arricchito ogni ristampa con nuovi consigli e ricette (Artusi è stato forse il primo food blogger). Non è solo un ricettario, ma anche un esempio di cucina parsimoniosa. Suggerisce come si può mangiare bene nel miglior modo possibile, senza esagerare e senza sprecare. In altri termini, quanto basta per mangiare il giusto. Il «basta» richiama la sufficienza, la sobrietà, la semplicità, mentre il «giusto» rimanda alla giustizia, all’equilibrio, all’equità: esattamente tutti gli ingredienti che mancano nella ricetta che compone e scompone la nostra società contemporanea in crisi profonda.

In questo strano mondo dove convivono eccessi e carenze, quasi oltre 800 milioni di affamati e 1,5 miliardi fra sovrappeso e obesi, la formula «basta il giusto» – né troppo poco, né troppo – non sarebbe male come traguardo da raggiungere. Un obiettivo equo e sostenibile, nel senso che deve anche durare nel tempo. La sostenibilità significa, appunto, durare nel tempo.
Abbiamo fatto un salto di quasi 150 anni, ma è proprio qui che oggi si coniuga lo spreco con l’educazione. Perché era già tutto scritto.

Del resto lo spreco alimentare, in Italia secondo l’ultima rilevazione dell’Osservatorio Waste Watcher vale solo a livello domestico ben 7 miliardi di euro (2024), è la cartina tornasole di ciò che sta accadendo. È paradossale ma il cibo, in Italia, non è davvero riconosciuto come un «valore» nel senso più ampio di questo termine e neppure, di conseguenza, dei valori derivati: economici, ambientali, sociali, sanitari, relazionali. Valore e valori che potrebbero essere «tirati fuori» con una buona iniezione di educazione alimentare. Del resto, educare deriva dal latino ex ducere, tirare fuori il meglio del cibo, il suo valore, invece di «mettere dentro» lo stomaco e la mente cibo «cattivo».

Ed è dunque ancor più paradossale che proprio in Italia non esista un programma strutturale di educazione alimentare nelle scuole. È da tempo, almeno da quando abbiamo lanciato al Parlamento europeo nel 2010 la Campagna Spreco Zero, che chiediamo l’inserimento di questa materia nelle scuole di ogni ordine e grado. Partendo da un ennesimo paradosso. Mentre vi è la necessità di rendere accessibile il cibo a 862 milioni di persone nel mondo insicure dal punto di vista nutrizionale, oltre un terzo della produzione agricola si spreca e con essa la terra, l’acqua, l’energia servite per produrre. Un’enormità: tanto che se si potessero recuperare tutti gli sprechi si potrebbe dare da mangiare, per un anno intero, a 2 miliardi di persone.

Il futuro passa per un cambiamento culturale, una cultura alimentare. E il primo paragrafo di un ideale libro lo vedrei bene nell’abolizione del verbo «consumare», che significa distruggere (tutti i beni non solo quelli alimentari sprecati). C’è un verbo assai più appropriato: fruire. Il consumatore deve essere, considerarsi, chiamarsi ed essere chiamato «fruitore». Fruire un bene è molto diverso dal consumarlo. Fruire vuol dire godere, soprattutto nel senso di avere, giovarsi di qualcosa o averne la disponibilità. Perfetto per il cibo – peraltro si accosta al latino fructus, frutto – perché la fruizione si lega alla disponibilità e anche, in definitiva, a un diritto: fruire vuol dire infatti trarre giovamento da qualcosa avendone diritto. Il diritto al cibo, come ho cercato di spiegare altrove definendo lo ius cibi e la cittadinanza alimentare. Diritto sancito dalla Carta dei diritti umani, ma affatto garantito.