«Disastro» Ilva, sentenza storica. Condannati i Riva
Tamburi d'aria Processo «Ambiente Svenduto», 20 e 22 anni in primo grado per gli ex proprietari e amministratori dell’acciaieria
Tamburi d'aria Processo «Ambiente Svenduto», 20 e 22 anni in primo grado per gli ex proprietari e amministratori dell’acciaieria
È una sentenza che resterà nella storia della città di Taranto. E che diventerà un punto di riferimento per le future controversie legali in materia di inquinamento ambientale in Italia. Ieri mattina, la Corte d’Assise di Taranto, dopo undici giorni di camera di consiglio, ha letto il dispositivo della sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto sulla gestione dell’ex Ilva negli anni 1995-2013. La sentenza è arrivata dopo 5 anni di dibattimento, quasi 400 udienze fiume che hanno visto sfilare decine di imputati e centinaia di testi: accusa e difesa si sono date battaglia su ogni singolo aspetto di una vicenda infinita e lungi dall’essersi risolta definitivamente.
LA CORTE ha di fatto ritenuto in gran parte corretto l’impianto accusatorio (l’accusa era rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Buccoliero, Epifani, Graziano e Cannalire), condannando a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’ex Ilva, per i reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. L’accusa aveva chiesto 28 e 25 anni. I Riva in fabbrica potevano contare sul cosiddetto «governo ombra», di cui facevano parte i «fiduciari»: 18 gli anni di condanna per cinque imputati (Lafranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino e Enrico Bessone) che secondo l’accusa formavano un gruppo di persone non alle dipendenze dirette dell’Ilva che prendeva ordini dalla famiglia Riva.
CONDANNATO A 21 ANNI e 6 mesi l’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà (erano stati chiesti 28 anni), che fungeva da ponte tra la proprietà e la politica oltre a mantenere legami con gran parte della stampa locale, la Curia e che avrebbe corrotto il consulente della procura Liberti condannato a 17 anni.
Condannata anche la catena di comando interna del siderurgico. Ventun’anni per l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso, 17 ciascuno agli ex capi area Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò. Per altri due ex capi area, Marco Andelmi e Angelo Cavallo, la pena è stata di 11 anni e 6 mesi. Condanna di 4 anni invece per l’attuale dirigente Adolfo Buffo (i pm ne avevano chiesti 20). L’ex consulente dei Riva, l’avvocato Francesco Perli è stato condannato a 5 anni e 6 mesi. Piena assoluzione invece per l’ex prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva dall’estate 2012 a quella del 2013 quando l’azienda venne commissariata: per lui erano stati chiesti 17 anni.
MA L’INCHIESTA sull’ex Ilva ha coinvolto anche personaggi politici che ricoprivano ruoli primari durante la gestione Riva. La Corte d’Assise ha infatti condannato a 3 anni l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata, reati che avrebbe commesso in concorso con l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva condannato a 3 anni.
Tre anni e mezzo sono stati inflitti all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola (i pm ne chiedevano 5): l’ex governatore è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. Quest’ultimo, accusato di favoreggiamento nei confronti dell’ex presidente, è stato condannato a 2 anni. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. Prescritto invece il reato di abuso d’ufficio per l’ex sindaco Ippazio Stefàno.
ULTIMA, MA NON per importanza, è la confisca disposta per gli impianti dell’area a caldo sottoposti a sequestro dal luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva Fire (oggi Partecipazioni Industriali in liquidazione) e Riva Forni Elettrici. La confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società per gli illeciti amministrativi è pari a una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. All’ex Ilva è stata anche comminata una sanzione di 4 milioni. Disposti anche 5mila euro di risarcimento danni a testa per le oltre 900 parti civili.
LA CONFISCA PONE degli interrogativi sul futuro dell’azienda, che non si fermerà in quanto la facoltà d’uso degli impianti non è stata intaccata. Così come è chiaro che il provvedimento diventerà effettivo solo quando giungerà la sentenza definitiva. Il punto interrogativo più importante riguarda però gli accordi sin qui sottoscritti tra ArcelorMittal, gestore affittuario, e Invitalia: la proprietà alla base di accordi e transazioni ora viene meno, pertanto non è chiaro se gli accordi resteranno validi. Chi sarà a gestire gli impianti confiscati? Il soggetto pubblico che sarà incaricato di disporne cosa ne dovrà fare?
Il tutto in attesa della prossima sentenza del Consiglio di Stato, che qualora confermasse la sentenza del Tar di Lecce in merito all’ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci, porterebbe alla probabile e definitiva chiusura dell’area a caldo del siderurgico tarantino.
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