Disarmonie prestabilite tra vite e paesaggi
Cinema «Piccola Patria» di Rossetto e «Le meraviglie» di Rohrwacher riletti come paradigmatici di una nuova poetica, capace di trasmettere uno speciale ethos dello sguardo
Cinema «Piccola Patria» di Rossetto e «Le meraviglie» di Rohrwacher riletti come paradigmatici di una nuova poetica, capace di trasmettere uno speciale ethos dello sguardo
Merita qualche considerazione il fatto che i due film italiani forse più interessanti che sono in circolazione in questo momento, e cioè Piccola Patria di Alessandro Rossetto e Le Meraviglie di Alice Rohrwacher, per quanto all’interno di una differenza radicale che li rende incomparabili, rispondano però come a un’aria di famiglia, producano cioè l’effetto di una sorta di condivisione emotiva, di un’attitudine narrativa, persino di un ethos dello sguardo, verrebbe da dire.
Sia Rossetto che Rohrwacher vengono dalla provincia e ne testimoniano, attraverso il loro lavoro, l’esperienza; tanto Piccola Patria che Le meraviglie rimandano, nella loro scrittura, a strutture per così dire classiche e archetipiche, quella della tragedia nel caso del film di Rossetto e quella della fiaba realistica nel caso del film di Rohrwacher; entrambi sono una sorta di riflessione sul paesaggio e sul rapporto contorto e contradditorio che segna in modo del tutto peculiare la contemporaneità fra l’umano e la natura; entrambi sembrano mescolare una tecnica di uso dell’immagine di tipo documentaristico (particolarmente evidente, com’è ovvio, in Rossetto che è un maestro del genere) con la finzione; entrambi provano a narrare attraverso le loro storie l’intreccio complicato e doloroso di relazioni amorose, relazioni famigliari e sfondo ambientale.
Piccola Patria è il racconto di una amicizia squilibrata e in certa misura asimmetrica nell’investimento emotivo tra due ragazze, Luisa e Renata, sullo sfondo di un Nordest così vero e reale da risultare quasi caricato. La scena si svolge infatti intorno a un enorme albergo nero, che sembra la Mecca, costruito ai bordi di una autostrada con a fianco un maneggio dove lavora un ragazzo albanese, Bilal, e a un agglomerato di case vecchie e mai finite che comprendono una fattoria e un capannone dove vive la famiglia di Luisa. Il tutto alla periferia di un paese che potrebbe essere un qualsiasi paese del Veneto, dove vive «il porco», l’uomo che paga per un gioco erotico Renata e che una volta ricattato dalle due ragazze ne organizza quasi dall’esterno la condanna che loro stesse, secondo appunto i canoni della tragedia, porteranno a compimento.
Il paesaggio è forse il protagonista principale del film: un paesaggio stuprato, scavato, sradicato, dove i capannoni industriali si fondono con la più ancestrale delle ruralità, dove la natura è violentata e sfregiata dall’orrore dell’insensatezza più che da quello della necessità. È l’immagine amorfa del progresso scorsoio zanzottiano, sottolineata nelle immagini aeree di Rossetto dai cori di Bepi de Marzi: canti che richiamano forme antiche e polifonie classiche e che danno voce a una sorta di silente disperazione conseguente alla constatazione che «l’acqua xe morta», che nulla più è come prima, che lo sfacelo della natura è lo sfacelo delle vite che ci vivono dentro, delle vite che Rossetto ci mostra nel dettaglio come familiari, vicine, quotidiane e contemporaneamente terribili, orribili, radicalmente altre da ciò che perlomeno pensiamo di essere.
La violenza è entrata così profondamente dentro i personaggi di Piccola Patria, da non essere nemmeno più percepita come tale: sembra quasi normale che un padre abbia la pistola, sembra come soggiacente all’ordine delle cose, alla difesa della casa, della famiglia, del lavoro. Proprio come i capannoni, i silos, le villette-benessere, come le chiamava Zanzotto, sembrano parti ormai indissolubili del paesaggio domestico di queste terre, da non venir nemmeno più percepite come ferite, come lacerazioni, come deturpazioni.
Il paesaggio, diceva ancora Zanzotto, più che uno stato di cose è «un evento, un accadimento che lega in un intreccio indissolubile e non descrivibile – se non per approssimazioni – la realtà del luogo e la condizione psico-fisica dell’uomo». E così è anche per il film di Rohrwacher.
Ambientato in Toscana, nella terra che è in qualche modo il sogno dei turisti di tutto il mondo e avendo al centro la storia di questa strana famiglia con un papà non italiano (tedesco?, belga?, svizzero?) che si chiama Wolfgang, di una mamma italiana, interpretata da Alba Rohrwacher, con quattro figlie femmine, il film mette in scena una realtà rurale per molti aspetti antibucolica, nella quale la natura è però pensata da questi genitori, figli disillusi della contestazione e dei grandi ideali rivoluzionari, come una forma di resistenza, come una sorta di rifugio e di tana dentro la quale rinchiudersi al riparo da quella svendita delle esistenze che appare a Wolfgang il mondo che si crede «civilizzato», il mondo retto cioè da una logica economica che viene letta come la più radicale distorsione e violenza rispetto alla natura.
La natura in cui questa famiglia ha deciso di vivere in modo sgangherato e faticoso è il tentativo contradditorio e a volte teneramente patetico di pensare e realizzare una forma di vita nella quale l’uomo non si ponga come padrone, nella quale le merci non costituiscano il fulcro della realtà, nella quale gli elementi primordiali siano accolti come costitutivi di quello che siamo. Una realtà nella quale al di là delle scissioni che sono conseguenti a qualsiasi processo di modernizzazione, l’umano torni a pensarsi comunitariamente uno con la natura. Il mondo civilizzato è il mondo degli Scheißejäger, come li chiama Wolfgang, i «cacciatori di merda», di cui si sentono solo gli spari e che testimoniano della loro presenza solo attraverso l’eco dei fucili. Questo mondo si fa invece concretamente visibile quando vicino a casa loro compare una troupe televisiva che sta preparando una trasmissione sui luoghi segreti del Belpaese, una sorta di concorso a premi per chi vive nella natura, nella bellezza di quella natura sempre agognata e imbellettata dalla sua alterità civilizzata, un po’ come la civiltà è sempre detestata e fustigata da chi, come Wolfgang, ha trasformato la natura nel regno del bene e della giustizia.
La televisione, impersonata da una sorta di fata (Monica Bellucci) diventa però il desiderio di una delle figlie, Gelsomina, la prediletta del padre, quella che lavora insieme a lui, in un rapporto di quasi schiavismo che invece Wolfgang sembra interpretare come «naturale», appunto, necessario nella purezza di una vita che resiste al mondo delle cose. E la televisione è appunto per Gelsomina il mondo, l’insieme di relazioni e rapporti da cui il padre vuole tenersi e tenerla alla larga e che incarna invece per lei la bellezza, la possibilità di un riscatto, l’opportunità di esistere fuori dalla necessità naturale.
Tanto Piccola Patria, come Le Meraviglie mettono in scena con profondità e schiettezza narrativa e con un senso della realtà mai banale, né tantomeno ornamentale e caricaturale, il legame profondo, radicale e abissale che collega le vite dei protagonisti al paesaggio in cui accadono, come se non fosse più possibile la natura rispetto al suo altro, quasi invitandoci a pensare la natura non come lo sfondo dentro cui si svolgono le nostre azioni, quanto piuttosto come l’esito del rapporto fra il nostro modo d’essere e l’ambiente in cui ci muoviamo, fra i luoghi e le azioni. Specularmente a quanto accade alle relazioni tra gli individui, dove l’amore dei padri – e questo vale per quanto in forme del tutto diverse sia per il padre di Luisa in Piccola Patria, sia per il padre di Gelsomina nel film di Rohrwacher – sembra destinato a trasformarsi in violenza, e dove un barlume di salvezza, una qualche forma di umana comprensione, sembra esserci solo nelle madri, solo in chi, viene da pensare, è stato ventre della vita e non ha perciò bisogno tramite azioni e riconoscimenti filiali, di affermare, magari attraverso una retorica della naturalità, ruolo e potere.
L’impressione è che questi due film, che non a caso hanno provocato grande attenzione all’estero, siano come il segno di una nuova poetica; di uno sguardo analitico, ma non per questo neutro sulla realtà; di un’attitudine non unilaterale o ideologicamente orientata, ma non per questo apatica e distaccata nei confronti dei personaggi di cui si racconta; della capacità di riflettere, anche con tenerezza e vicinanza, ma senza mai nascondere il male, il dolore, l’abominio, sul mondo che siamo.
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