L’ultimo rapporto del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) sul commercio internazionale delle armi, datato marzo 2022, indica che il nostro Paese, nel periodo 2017-2021, è stato il sesto esportatore al mondo dopo Usa, Russia, Francia, Cina e Germania, occupando una quota del 3,1% di quel lucroso mercato globale. I due principali clienti dell’Italia sono stati l’Egitto e la Turchia che da soli hanno assorbito quasi la metà del nostro export. Come usino le armi che noi produciamo e vendiamo loro non è un mistero.

Il paese del Maghreb, dopo il fallimento delle primavere arabe, è governato dal regime di Abdel Fattah al-Sisi, dimostratosi ancora più autoritario di quello instaurato da Hosni Mubarak, mentre il sultano turco Erdogan si è distinto, come purtroppo sappiamo, nel massacro dei curdi ed è stato più volte accusato di crimini di guerra e contro l’umanità.
In questi anni non è mancato chi si è genuinamente opposto a questo commercio di morte ma tra questi non risulta, ad esempio, l’ineffabile leader della Lega. Matteo Salvini ha invece scoperto ora, grazie al conflitto in Ucraina, il valore della pace.

Considerando i suoi rapporti con Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, potremmo essere tentati di dare una spiegazione assai meno nobile della sua recente conversione al pacifismo. Lo stesso pensiamo di chi oggi condanna l’invasione russa dell’Ucraina ma non ha trovato altrettante parole di sdegno per il massacro che in Iraq nel 2003 hanno posto in essere i “volenterosi” sotto la guida degli Usa, giunti persino a costruire false prove sulla presenza di armi di distruzione di massa per ottenere il sostanziale via libera da parte della comunità internazionale.

Lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1511 del 16 ottobre 2003 ha riconosciuto e ratificato la situazione di fatto esistente in Iraq dopo l’aggressione anglo-americana, sollecitando gli Stati a contribuire alla formazione di una forza multinazionale per mantenere la sicurezza e la stabilità sino all’insediamento di un legittimo governo iracheno. La risoluzione fu votata all’unanimità. Russia compresa dunque, anche se il governo di Putin, in una dichiarazione congiunta con Francia e Germania, rimarcò l’impegno verso il ripristino della sovranità irachena e la necessità di scongiurare un ulteriore coinvolgimento militare. La stessa Russia dello stesso Putin che oggi pretende di giustificare la sua “operazione speciale” in Ucraina con quella altrettanto speciale dei governi occidentali in Iraq o altrove, come se un crimine potesse trovare giustificazione nei crimini commessi dagli altri. Questa ipocrisia non riguarda solo i governanti e i governi. Anche noi governati non ne siamo immuni.

I sondaggi dicono che gli italiani sono i meno favorevoli tra gli europei all’invio di armi in Ucraina e che nel nostro Paese sono anzi più numerosi i contrari. Sarebbe davvero ingenuo scambiare questa posizione come integralmente pacifista.
Molti di coloro i quali si dichiarano contrari non lo fanno per salvare vite umane ma per non essere disturbati nella vita di sempre senza il fastidioso pensiero della guerra. E soprattutto perché deplorano l’aumento del prezzo del gas e le ripercussioni sull’economia italiana.

Non so infatti quanti, fra di noi, si sono misurati fino in fondo con quello che Luigi Ferrajoli ha definito un autentico dilemma morale, fra la necessità di impedire nuove stragi di civili e di militari e quella di consentire agli ucraini di difendersi dagli aggressori. Anche Noam Chomsky, in un’intervista al Corriere della Sera, ha espresso dubbi sull’opportunità di inviare armi in Ucraina, sostenendo che la scelta dovrebbe essere presa “in base al fatto che possa aiutare o danneggiare le vittime ucraine”.
Ogni posizione intellettualmente onesta è benvenuta ma le ragioni della pace e del disarmo non possono giovarsi delle ipocrisie da qualunque parte esse provengano.