Visioni

Dirk Bogarde, immagine in continua metamorfosi

Dirk Bogarde, immagine in continua metamorfosiDirk Bogarde e Andrea Ferreol in una scena di Despair di Rainer Fassbinder, sotto in Il servo di Joseph Losey

Cinema Al Bergamo Film Meeting una retrospettiva dedicata all'attore britannico con ventitre titoli di una grande filmografia

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 14 marzo 2014

Essere partorito sui sedili di un taxi in corsa è un privilegio, dal sapore velatamente cinematografico, riservato a pochi eletti. Un giorno di marzo del 1921, Dirk Bogarde nasceva inaspettato e in movimento, simbolicamente in un transito che avrebbe accompagnato tutta la sua vita, sullo schermo e non, esistenza perennemente a zonzo fra generi, nazioni e vocazioni, vita sviscerata con humor e precisione in una serie di autobiografie e raccolte di memorie – come Fondale, Un uomo corretto, Una sconfinata prateria – che hanno accompagnato l’ultima metamorfosi del suo percorso, lontano dall’Inghilterra e dal cinema.

Paradossale dunque pensarlo, a inizio carriera, come la quintessenza dell’eleganza sinuosa ma rassicurante tipicamente british, idolo di teenager ancora ignare delle pulsazioni beatlesiane, star assoluta della Rank Organisation che per oltre quindici anni lustrerà, grazie al successo senza precedenti di film come Simba, Quattro in medicina e i suoi sei sequel, il suo leggendario gong con profitti stellari. Gli anni alla Rank verranno ricordati come esasperanti, complessi, restrittivi ma forse necessari per preparare quell’iniezione di ambiguità e perenne crisi identitaria che sottopelle attraverserà quasi tutti i suoi film dopo la «liberazione» alla fine degli anni ’50. Primo punto di non ritorno Victim di Basil Dearden, coraggiosissimo film britannico che affronta, nel 1961 e per la prima volta, la questione omosessuale senza lustrini o facili ironie ma con un’analisi spregiudicata, pur nella castità dei tempi, dei meccanismi di difesa e mascheramento nel sentirsi «vittime» della società.

13BOGARDEilservo

Due anni dopo, la mutazione si compie con il secondo incontro con la macchina da presa del rifugiato Joseph Losey, dopo le prove tecniche di qualche anno prima con La tigre nell’ombra, mèlo trattenuto dove comunque stilemi loseyani come l’elemento dirompente di un corpo estraneo e l’antinomia servo-padrone, riescono comunque a venire a galla. L’attesa esasperazione non può che compiersi, ovviamente con il corpo e il volto di Bogarde, ne Il servo che marchia di violenta ambiguità, e in maniera indelebile, l’attore oramai pallido ricordo di garanzia al botteghino e agli occhi delle mamme.

Il cinema d’autore inglese, che proprio in quei primi bagliori degli anni ’60 assisteva alla nascita iconoclasta del Free Cinema, si fa sedurre e Bogarde seduce lo spettatore con quel distacco minaccioso e sensuale che infiammerà nuovamente la pellicola di Losey – Per il re e per la patria, L’incidente, Modesty Blaise – ma anche autori cardine come John Schlesinger nel crudelmente sociologico Darling, Jack Clayton con il macabro e sgradevole dramma familiare Tutte le sere alle nove fino allo sbarco oltremare nel 1969 che segnerà la definitiva, ma sempre liquida, metamorfosi. Luchino Visconti è l’artefice, il creatore, grazie alla doppia collaborazione con Bogarde in La caduta degli dei e Morte a Venezia, di una sorta di figura attoriale e intellettuale leggibile e d’immediata identificazione in tutti i luoghi d’Europa. Gli abiti di tweed, l’inflessione vocale educata e bon-ton, le connotazioni marcatamente inglesi che sembravano incancellabili, si dissolvono in un nuovo corpo in grado di assorbire sfumature e colori per tutte le nazioni, in un connubio raffinatissimo di tradizione e peculiarità. In un vortice di voracità e volontà di possesso (di acciaierie o di un manniano efebo in riva al mare) si compie l’ennesima mascherata, con o senza scioglimento di trucco, che proietta Bogarde verso l’ultimo viaggio cinematografico, condotto da cineasti ebbri d’inconscio e letteratura, a partire dalla trasgressiva e sadomasochistica Storia di Liliana Cavani ne Il portiere di notte.

Con Alain Resnais in Providence indaga gli abissi della memoria fra sogno, realtà e immaginazione mentre nel Despair di Rainer Werner Fassbinder incarna in modo allucinatorio, tra specchi sirkiani e moltiplicazioni della propria immagine, il sosia di Dostoevskij per poi ritirarsi nella campagna francese e dedicarsi alla scrittura, con l’elegiaca parentesi del 1990 di Daddy Nostalgie di Bertrand Tavernier, fino alla morte datata 1999. Per aiutarci a superare la «Dirk Nostalgie», il Bergamo Film Meeting dedica all’attore un’ampia retrospettiva di 23 titoli che coprono tutte le metamorfosi di un attore sempre e comunque in movimento, dentro e fuori se stesso, come quel taxi che lo portò alla vita.

 

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